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IL PIEDE ISCHEMICO

 

Per molto anni la neuropatia è stata considerata la causa prevalente di ulcerazione del piede nei diabetici:  il  “mal perforante plantare” era l’immagine tipica del piede diabetico. E’ dall’inizio degli anni 90 con i fondamentali lavori di Pecoraro sulla rilevanza dell’ischemia nella prognosi amputativa  e di LoGerfo sulle caratteristiche dell’arteriopatia nel diabete e sulla rilevanza prognostica  della rivascolarizzazione chirurgica che l’arteriopatia comincia ad assumere un ruolo prognostico  riconosciuto nella  “diabetic foot syndrome”(1,2).

Nel corso di questo secolo una mole cospicua di lavori ha supportato inequivocabilmente il ruolo dell’arteriopatia nel management del  piede diabetico fino ad arrivare a un recente lavoro multicentrico Europeo che ha fatto una definitiva chiarezza sulla prevalenza della arteriopatia evidenziando la sua presenza nel 50% dei pazienti con ulcera del piede (3).

Se si considera che gli stessi autori della ricerca hanno considerato che il metodo diagnostico utilizzato – ankle-brachial index (ABI) – ­poteva sottostimare  la reale prevalenza di arteriopatia si potrebbe dedurre che la prevalenza di un piede ischemico è addirittura maggiore rispetto a un piede neuropatico.

E’ ben noto che  la prevalenza della malattia diabetica è in forte aumento nel mondo, soprattutto a carico dei paesi in via di sviluppo. Il terzo rapporto del World Health Organization del2004 prevede per il 2030 366 milioni di diabetici (4).

E’ forse meno noto che mentre in questi paesi l’incremento è prevalentemente  a carico della popolazione di età media, nei paesi sviluppati è a carico della popolazione con più di 65 anni di età (figura 1) (5,6).

Figura 1 aumento stimato della prevalenza di malattia diabetica in relazione all’età in paesi sviluppati e in via di sviluppo (da referenza 5)


Se si considera che la prevalenza di arteriopatia subisce un incremento progressivo al crescere dell’età, si comprende come la senza di un “piede ischemico” possa essere considerato il problema principale del futuro di questa complicanza del diabete nei paesi industrializzati (figura 2) (7).

Figura 2  Prevalenza di PAD in relazione all’età

Ed è anche comprensibile come l’aumento combinato di età e arteriopatia giustifichi le previsioni di aumento di amputazioni su base ischemica (8) (figura 8)

Figura 8 previsioni sull’incidenza di amputazioni in USA dovute ad arteriopatia (da referenza 8)

Tuttavia la prognosi sia amputativa che di sopravvivenza  della  PAD è strettamente legata alla sua gravità sia nella popolazione diabetica che non diabetica (9,10).

La figura 9 riporta le linee guida di management della PAD della ACC/AHA da cui risulta chiaramente il diverso impatto prognostico di una diversa severità della PAD (11).

Figure 9 Storia naturale della PAD (dalla referenza 11)

Da qui la necessità non solo di una conoscenza precisa della sua esistenza  ma soprattutto della sua gravità.

La vasculopatia periferica nei diabetici non diversamente che nella popolazione generale è dovuta alla presenza di placche aterosclerotiche che diminuiscono (stenosi) o interrompono completamente (occlusioni) il flusso di sangue in una o più arterie dell’arto inferiore: è quindi una arteriopatia ostruttiva periferica (figura 10).

Figura 10 definizione di arteriopatia secondo le lineeguida AHA/ACC ( da referenza 11)

Questa definizione è stata fatta propria dalla’America Diabetes Association (12,13). La figura 11 mostra i quadri anatomici di PAD

Figura 11 rappresentazione morfologica endoluminale e arteriografica di occlusione Della tibiale posteriore e stenosi della tibiale anteriore.

Non vi sono diversità rispetto ai non diabetici nelle caratteristiche istologiche delle placche aterosclerotiche. Sono invece profondamente diverse le caratteristiche morfologiche e cliniche. E’ prevalentemente distale e bilaterale, le pareti arteriose sono molto spesso calcifiche, prevalgono le occlusioni rispetto alle stenosi (14) (figura 12).

Figura 12  quadri morfologici ticipi dell’arteriiopatia occlusiva diabetica con stenosi a catena di rosario (A), steno-occluione poplitea con occlusione completa delle arterie sottoppoplitee (B), circolo al piede affidato a circoli collaterali senza arterie pervie (C).

Un esempio di tipica arteriopatia diabetica è riportato nella sottostante figura 13 in cui si vede come esistano stenosi multiple della femorale superficiale e  una occlusione della poplitea poco sotto il ginocchio e  al di sotto di questa solo rami collaterali ma nessuna arteria aperta fino al piede.

Figura 13 quadro tipico di arteriopatia diabetica occlusiva periferica: stenosi multiple della femorale superficiale, occlusione della poplitea poco sotto il ginocchio, occlusione delle tre arterie di gamba. L’irrorazione della gamba è affidata a circoli collaterali, l’irrorazione del piede alla riabitazione alla caviglia di una esile pedidia che si tronca al mesopiede

Queste caratteristiche anatomiche rendono ragione della difficoltà che si possono incontrare quando necessaria la rivascolarizzazione e di come la ischemia dell’arto sia  il determinante prognostico principale di amputazione maggiore.

 

EPIDEMIOLOGIA

 

La prevalenza della PAD nella popolazione generale è storicamente considerata  sottostimata perchè molto sesso la sua presenza nelle fasi iniziali è asintomatica: il The National Health and Nutrition Examination Survey (NHANES) riporta che negli USA più della metà degli adulti di più di 60 anni di età affetti da PAD era asintomatico (15).

Questa sottostima è certamente ancor più ampia nella popolazione diabetica dove la contemporanea presenza di neuropatia sensitiva mitiga o annulla completamente il dolore sia da sforzo che a riposo (12).

Nonostante questo fattore confondente, numerosi studi epidemiologici a partire già dallo studio di Framingham  hanno confermato una maggior prevalenza   PAD nei diabetici (16-20).  Si  deve però tener conto che  la prevalenza è largamente dipendente dai criteri diagnostici adottati (21)

Il metodo non invasivo considerato più accurato e riproducibile  è l’indice caviglia –braccio (ABI):  con questo metodo diagnostico la prevalenza di PAD è stata stimata in circa il 20% ma con ovvie differenze in relazione all’età (22,23).

La prevalenza dell’8% in diabetici di neo diagnosi è stata confermata da un più recente studio Italiano (24).

Oltre che più frequente, la PAD nei diabetici è  precoce e non risparmia le donne anche in età fertile (25).

Di particolare importanza è la rapidità di progressione della malattia per le ovvie implicazioni cliniche sul timing della sorveglianza (26,27).

 

FATTORI DI RISCHIO

 

Dell’età si è detto. Il fumo è insieme al diabete il principale fattore di rischio per PAD ed è il più importante fattore di rischio modificabile (28,29).

L’iperlipemia, primariamente elevati livelli di LDL colesterolo, è associata a un aumento di due volte il rischio di claudicatio (30).

La combinazione di bassi livelli di HDL colesterolo e alti livelli di trigliceridi è stata frequentemente osservata nei diabetici con PAD (31,32).

L’UKPDS  ha dimostrato che l’ipertensione è associata all’incremento di incidenza di PAD e per converso il buon controllo ipertensivo è associato a una bassa prevalenza  di PAD (33).

 

Il ruolo dell’infiammazione è stato indagato soprattutto in questa ultima decade. Nell’ Edimbourgh  Artery Study il rischio di PAD era del 35% maggiore nei pazienti con iperfibrinogenemia (34)

Proteina C reattiva, omocisteina, D-dimero, citokine, molecole di adesione  cellulare e altri fattori non usuali potrebbero giocare  un ruolo importante nello sviluppo di patologia cardiovascolare (35-38).

Questo ruolo al momento non è ancora ben definito.

L’UKPDS ha mostrato un ruolo prognostico indipendente del controllo metabolico valutato come emoglobina glicata (HbA1c)  sull’incidenza di PAD: l’ 1% di aumento in questa è associato a un rischio aumentato del 28% di  sviluppare PAD (39).

Tuttavia una particolare attenzione va posta ai valori di HbA1c che si vogliono ottenere in pazienti con PAD. Alcuni recenti  studi hanno voluto valutare l’effetto di valori molto bassi di HbA1c anche sulle complicanze macroangiopatiche del diabete (40).

L’efficacia sugli end-point cardiovascolari  è risultata assente negli studi ADVANCE (HbA1c target: < 6.5%) e VADT (HbA1c target: < 6.0%) (41,42).

Lo studio  ACCORD in cui HbA1c  target:< 6%)  in cui erano molto numerosi i pazienti con anamnesi di CVD è stato interrotto per eccesso di mortalità (43).

Da notare che nessuno di questi studi è stato in grado di raggiungere il target di  HbA1c  ma solo di avvicinarsi a valori un pò superiori.  Dati  osservazionali posteriori alla chiusura dello studio sia del DCCT che dell’UKPDS  hanno evidenziato per valori di HbA1c  pari o leggermente superiori al 7%  una efficacia su eventi macrovascolari non presente al termine degli studi di intervento, legando il risultato alla precocità di ottenimento di un buon controllo metabolico (44,45).

Anche in base a questi dati si può concludere che obiettivi di compenso glicemico meno stringenti (HbA1c 7-8%) rispetto a pazienti di età media  all’esordio di malattia devono essere perseguiti in pazienti con diabete di lunga durata di malattia (> 10 anni) soprattutto con precedenti di CVD o fragili per età e/o comorbilità (46-49).

La gran parte dei pazienti diabetici con PAD hanno queste caratteristiche

 

DIAGNOSI DI PAD NEI DIABETICI       

 

Screening La ricerca di una malattia occlusiva degli arti inferiori nella popolazione diabetica è un compito preciso di tutti coloro che si occupano di diabete (12). La diagnosi precoce di PAD consente una cura efficace della malattia (50).

Per ovvi motivi organizzativi la fattibilità di uno screening dipende dalle metodiche utilizzabili: sarà tanto più fattibile quanto più potrà essere assolto con strumenti di basso costo e che necessitano di un tempo ridotto di esecuzione.

A questi criteri corrispondono l’esame ispettivo del piede, la palpazione dei polsi e la determinazione dell’ABI

L’esame ispettivo del piede contribuisce purtroppo in maniera molto poco sensibile alla diagnosi di PAD (51).

In un recente studio Italiano sulla prevalenza di PAD nei diabetici di nuova diagnosi tutti i parametri ispettivi indagati: presenza di cianosi, ipotermia, ipotrofia, anomalie del sistema pilifero, non sono risultati associati alla diagnosi di arteriopatia effettuata con la determinazione dell’ABI (24). Concordiamo quindi pienamente con l’affermazione della Mayfield et al che “the clinical exam remains an inexact art” (52).

La palpazione dei polsi è un atto diagnostico fondamentale nella valutazione della PAD: l’assenza dei polsi periferici evidenzia la presenza di malattia occlusiva ma non consente di stabilirne  la localizzazione  e la gravità dell’AOP (53).

Nella figura  14  i punti di repere per la palpazione dei polsi alla caviglia e nella figura 15 la palpazione di questi polsi nella realtà ambulatoriale.

Figura 14  punti di repere per la palpazione dei polsi alla caviglia

Figura 15 palpazione del polso tibiale posteriore e pedidio in ambulatorio del piede diabetico

Le linee guida del 2006 consigliano di descrivere i polsi  come “abnormal” [2+], “diminished” [1+], or “absent” [0] (11). Tuttavia polsi periferici possono essere palpati, anche se “diminished” anche in presenza di occlusioni a monte per riabitazione dell’arteria  a valle del sito di palpazione: come detto la palpazione dei polsi soprattutto quando presenti  non indica la gravità della malattia (54,55).

In letteratura la palpazione dei polsi è gravata da una variabilità inter-osservatore elevata (56).

L’American Diabetes Association (ADA) nel suo statement del 2003 riporta l’assenza del polso pedidio nell’8.1% e del polso tibiale posteriore nel 2% in individui sani (12).

Altri report portano fino al 30% la presenza di anormalità della pedidia  (57)

La mancanza del polso tibiale posteriore sembrerebbe dotata di maggior sensibilità e specificità rispetto alla mancanza del polso pedidio (58).

Il metodo diagnostico a cui è attribuita la più alta sensibilità e specificità  è l’ABI (59).

La misurazione dell’ABI offre informazioni non solo sulla presenza ma anche sulla  gravità della PAD: tuttavia la metodica non fornisce indicazioni su lunghezza, localizzazione e morfologia  della lesione steno-ostruttiva, né tantomeno sul run-in e run-off. Una approssimativa localizzazione delle ostruzioni può essere fornita dalla determinazione delle pressioni segmentarie. Nella figura 16 la rappresentazione schematica della rilevazione delle pressioni segmentarie. E’ facilmente intuibile come l’esecuzione di questa metodica richieda  parecchio tempo: la disponibilità di ecoDoppler ha naturalmente reso obsoleta questa modalità diagnostica, lasciando invece intatto il valore dell’ABI come metodica di largo utilizzo e capace do offrire informazioni diagnostiche utili.

Figura 16 rappresentazione schematica della rilevazione delle pressioni segmentarie con individuazione del punto di caduta

 

 

Il Doppler a onda continua permette l’analisi della forma dell’onda  (pulse volume waveform analysis) che può offrire informazioni utili anche se l’interpretazione è soggettiva. La figura 17 mostra i quadri di modificazione dell’onda Doppler in base alla tipologia delle ostruzioni.

Figura 16 quadri di modificazione dell’onda Doppler in base alla tipologia delle ostruzioni.

 

 

Nelle figure 18 e 19 quadri sfigmici reperibili al Doppler a onda continua (cw) (60)

Figura 18  quadro iconografico Doppler cw di normalità (da referenza 60)

 

Figura 19 quadro iconografico reperibile al Doppler cw  di stenosi molto prossimale e di occlusione della femorale superficiale (da referenza 60)

Per ottenere immagini delle onde Doppler è necessario utilizzare strumenti di un certo ingombro e anche di notevole costo.  La figura 20 A mostra la determinazione delle pressioni, le onde sfigmiche e l’ABI in un arto normale e in un arto con ostruzione della femorale superficiale e B un apparecchio Doppler a onda continua per la determinazione delle pressioni e della morfologia dell’onda

 

Figura 20 pressioni, onde sfigmiche e ABI in un arto normale e in un arto con ostruzione della femorale superficiale

 

La disponibilità di apparecchi Doppler a onda continua di dimensioni molto piccole e di costo relativamente modesto permettono un ampio uso dell’ABI anche a livello ambulatoriale a cui compete l’effettuazione dello screening (figura 21).

Figura 21 apparecchio Doppler a onda continua

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’ADA considera l’ABI un “reproducible and reasonable accurate, noninvasive measurement for the detection of PAD and  the determination of disease severity” (12). L’ABI viene determinato come rapporto tra la pressione sistolica rilevata sulla tibiale posteriore o sulla pedidia e la pressione sistolica rilevata sull’ omerale o sulla radiale. Per queste determinazioni è necessario usare sonde Doppler da 5 MHz  per poplitea e femorale, 8 MHz per arterie del piede, 10 MHz per  arterie digitali  e un comune sfigmomanometro (Figura 22) (61).

Figura 22 determinazione del rapporto arterioso caviglia-braccio con Doppler a onda continua e comune sfigmomanometro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’ADA ha identificato in valori di ABI < 0.91 una alta probabilità di presenza di PAD e in valori > 1.30 un’alta probabilità di calcificazioni della tonaca media (sclerosi di Monkeberg). In aggiunta a questi cut-of ha proposto dei valori intermedi riportati in tabella 1 che identificano vari stadi di gravità dell’PAD.

Tabella 1 gradazione della severità dell’AOP in relazione ai valori di ABI secondo l’American Diabetes Association

 

valore di ABI gravità della vasculopatia
0.91-1.30 normale
0.70-0.90 lieve
0.40-0.69 moderata
< 0.40 severa

 

 

Diversamente dalla popolazione generale in cui la determinazione dell’ABI è consigliata nei soggetti con determinai sintomi o  fattori di rischio, l’ADA consiglia uno screening con ABI in tutti i diabetici con > 50 anni d’età e in pazienti di età inferiore se hanno altri fattori di rischio per PAD. Se normale, va ripetuto ogni 5 anni.

Nei diabetici però vi è una alta prevalenza di sclerosi di Monkeberg  maggiore rispetto alla popolazione non diabetica (figura 23) (62-63).

Figura 23 Rx standard in cui è chiaramente visibile la calcificazione della femorale superficiale e delle arteria tibiali fino alle arterie pedidia e dell’arcata del piede

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La presenza di calcificazioni della media è generalmente correlata alla presenza di neuropatia (64).

Nella nostra esperienza le calcificazioni sono presenti in circa il 10% dei T2DM all’esordio di malattia e in circa il 40% dei diabetici con CLI (65).

Questo dato, apparentemente in conflitto con i dati della letteratura, è anche  ragionevole quando si considera che la popolazione con PAD e ancor più con CLI è una popolazione anziana con coesistenza  di neuropatia in una altissima percentuale di pazienti (66). (figura 24)

 

Figura 24 Prevalenza di neuropatia e arteriopatia in una popolazione ricoverata per piede diabetico ulcerato  negli anni 1990-1993 (da referenza 66)

 

Le conclusioni di un recente lavoro belga, molto drastiche sulla attendibilità diagnostica dell’ABI nei diabetici con arteriopatia distale, confortano il nostro scetticismo sulla accuratezza dell’ABI e della rilevazione della pressione alla caviglia: “In the diabetic foot, where lesions tend to be situated in BTK arteries (which lie parallel to each other), the pressure measured in one distal artery is less representative of atherosclerotic disease in the lower extremity.” (67).

La calcificazione della media causa una rigidità del vaso che diventa meno compressibile aumentando falsamente la pressione o incompressibile impedendo la sua rilevazione.

La presenza di un ABI > 1.3  lungi dal rassicurare deve essere considerata come un indicatore ovviamente di calcificazioni ma anche di alta probabilità di eventi cardiovascolari (68).

La palpazione dei polsi e la determinazione dell’ABI sono indagini diagnostiche di ampia fattibilità anche a livello ambulatoriale. I limiti oggettivi di queste metodiche non devono giustificare la mancanza di un loro utilizzo, ma devono soltanto dare  la consapevolezza del loro limite.

 

TRATTAMENTO DELLA PAD ASINTOMATICA

 

Il riscontro di PAD allo screening impone un trattamento adeguato del controllo metabolico e dei fattori di rischio aterotromboltico che sia  efficace nel rallentare la progressione di malattia e prevenire la comorbidità cardiovascolare (69).

La cessazione dal fumo, l’uso di statine e ACE inibithors  hanno una indubbia efficacia nella prevenzione di eventi aterotrombotici (70,71).

Alcuni studi recenti hanno evidenziato la mancanza di efficacia in prevenzione primaria dell’uso di aspirin (ASA) a vario dosaggio (72,73).

Recentemenete  un  Scientific Statement di ADA/AHA/ACCF ha riportato che l’uso di una bassa dose di aspirina in  prevenzione primaria è ragionevole in diabetici adulti  senza storia di malattia cerebro-vascolare se ad alto rischio cardiovascolare  (rischio a 10 anni  di evento  CVD > 10%) e senza rischio aumentato di emorragia (74).

E’ indubbio che diabetici con PAD asintomatica siano degni di trattamento antiaggregante (75).

In più un recente studio pubblicato su Lancet ha dimostrato che l’assunzione di ASA  comporta una diminuzione della mortalità per cancro (76).

 

Claudicatio ll sintomo di PAD più precoce e comune nella popolazione generale è la claudicatio. La presenza di neuropatia sensitiva limita cospicuamente  la presenza di dolore. La neuropatia sensitiva è contemporaneamente  presente in più dell’80% dei pazienti con piede ischemico ed elimina parzialmente o completamente il dolore ischemico.  Il primo effetto di questa contemporanea presenza di neuropatia e arteriopatia è la modesta prevalenza  nella popolazione diabetica con PAD di pazienti claudicanti rispetto a pazienti con ischemia critica.  In un recente lavoro effettuato su una popolazione italiana nella popolazione non diabetica  claudicanti erano quasi il triplo dei soggetti con ischemia critica ma nel sottogruppo di diabetici i claudicanti erano la metà rispetto ai pazienti con ischemia critica cronica (CLI). In una nostra antica casistica di pazienti ricoverati per ulcera del piede la claudicatio era presente nel 23% dei pazienti mentre una arteriopatia angiograficamente evidente era presente nel 85% della coorte (66).

La claudicatio è definita  da dolore  che insorge dopo un determinato numero di passi, che costringe a interrompere il cammino e che regredisce col riposo. La sede di insorgenza del dolore è la coscia quando la localizzazione delle ostruzioni è aortoilica, il polpaccio quando le ostruzioni sono femoropoplitee  o il piede quando le ostruzioni sono molto distali. Il sintomo dolore può essere riferito in maniera ambigua: potranno essere riferiti solo crampi o senso di fatica in una gamba. La condizione più comune associata con sintomi che possono essere confusi con la claudicatio è la radicolopatia (77).

Essenziale per una diagnosi differenziale è stabilire con esattezza la dipendenza di questi sintomi dal cammino:la comparsa ogni giorno dello stesso dolore al cammino, la scomparsa dopo alcuni minuti di sosta, la stessa distanza di comparsa ogni giorno. Tutte queste informazioni sono alla base dei questionari a cui  tradizionalmente è affidata la valutazione della claudicatio, il cui precursore è il questionario di Rose e una versione successiva è quello di Edimburgo visibili in figura 25.

Figura 25 questionari di Rose e di Edimburgo

 

Una accurata somministrazione di questo questionario richiede un certo dispendio di tempo ma garantisce una precisione diagnostica molto elevata se vengono ben codificate le risposte evidenziate in rosso nel questionario. Mentre la sensibilità diagnostica per PAD della claudicatio è molto bassa, la specificità è molto alta. Successivamente sono stati elaborati altri questionari giudicati più sensibili e specifici (78).

In presenza di sintomi suggestivi per claudicatio è sempre necessario valutare  l’ABI a riposo. L’ABI è stato dimostrato essere molto sensibile e specifico nella diagnosi di PAD in pazienti con stenosi significative. Invece la sua utilità in pazienti con malattia stenotica non significativa e con calcificazioni è discussa. In pazienti quindi con ABI normale a riposo o non fattibile per calcificazioni  può essere utile uno studio post-esercizio (79).

In presenza di claudicatio un elemento fondamentale anche per la guida dell’approccio terapeutico è la valutazione precisa dell’intervallo libero di marcia, cioè della distanza percorribile in assenza di dolore. Affidarsi alla distanza riferita dal paziente è molto approssimativo: per ottenere un dato preciso è necessario ricorrere al tapis roulant facendo camminare il paziente ad una velocità di 2,5 Km/h ed una pendenza del 12%.

L’esercizio va continuato sino alla comparsa del dolore o per almeno 5 minuti (80).

Viene valutato l’Intervallo di Marcia Libero Relativo  come comparsa di dolore muscolare iniziale, l’Intervallo di Marcia Libero Assoluto come necessità di interrompere l’esercizio e il Tempo di Recupero come  tempo necessario a recuperare una capacità di marcia abituale.

La terapia medica è molto efficace nell’ evitare l’evoluzione della claudicatio in ischemia critica (81).

Il trattamento terapeutico e il trattamento dei fattori di rischio sopra menzionati è a maggior ragione inderogabile nei claudicanti (83).

La cessazione dal fumo e l’esercizio fisico controllato sono in grado di incrementare significativamente l’intervallo libero di marcia (84).

L’esercizio fisico ottiene anche obiettivi che vanno al di là dell’incremento dell’intervallo libero di marcia (85-87).

Il cilostazolo è attualmente indicato dalla Food and Drug Amministration come unico farmaco specifico per la claudicatio ma con controindicazione nei pazienti con trattamento con nitroderivati e/o scompenso cardiaco (88).

La pentossifillina è stata approvata dalla FDA per la cura della PAD nel 1984 ma il suo uso è andato declinando e attualmente non vi sono raccomandazioni per il suo uso. La TASC II conclude che il  blufomedil  può essere preso in considerazione per il trattamento della claudicatio (89).

Si segnala che recentissimamente l’ European Medicines Agency (EMA) ne ha cautelativamente raccomandato la sospensione della distribuzione in Europa per descritti effetti collaterali cardiaci e neurologici.

Molti farmaci sono in studio per il trattamento della claudicato (90).

La rivascolarizzazione sia endoluminale che chirurgica non è ritenuta indicata dalla TASC II nei pazienti claudicanti se non quando presente una severa disabilità con gravi ripercussioni sulla qualità della vita. L’evoluzione in ischemia critica è rara nella popolazione non diabetica e il rischio di amputazione maggiore a 5 anni è minimo, stimato in circa il 2% (91,92) (figura 26).

Figura 26 indicazione alla rivascolarizzazione della TASC  (da referenza 89)

In questi pazienti pertanto non vi sarebbe indicazione alla rivascolarizzazione perchè il rapporto rischio/beneficio è certamente a vantaggio della terapia medica. Tuttavia se vi fosse un intervallo libero molto ridotto e una rilevante compromissione della qualità della vita non modificabili da una corretta terapia medica riteniamo che una procedura interventistica possa essere indicata se  fortemente voluta dal paziente accuratamente edotto dei rischi della procedura. La validità di questo approccio è stata confermata in una recentissima metanalisi (93). Segnalo che comunque anche un recentissimo studio ha provato la superiorità dell’esercizio controllato rispetto alla rivascolarizzazione endoluminale con stent della femorale superficiale (94).

I dati su cui si basano queste  indicazioni sono tuttavia prevalentemente se non totalmente derivanti da casistiche di arteriopatici aterosclerotici non diabetici. Nei diabetici la progressione di malattia soprattutto nel distretto  sottogenicolare è più rapida e questo potrebbe autorizzare alcune perplessità nel non rivascolarizzare diabetici claudicanti quando presente un intervallo libero veramente basso (95).

Non esistono evidenze però che confermino che in questi pazienti la rivascolarizzazione rallenti l’evoluzione in ischemia critica e diminuisca il rischio amputativo. Restano dunque incertezze sull’approccio più efficace e sicuro per questi pazienti.

Si sottolinea ancora che vi è una significativa differenza di out come tra claudicanti e critici e che la prevalenza di claudicanti nei diabetici è significativamente inferiore ripsetto ai soggetti con CLI (96) (figura 27)

Figura 27 mortalità in claudicanti e soggetti con CLI e prevalenza di diabetici tra claudicanti e soggetti con CLI

 

 

 

 

Chronic Critical Limb Ischemia (CLI) Per una valutazione della severità della PAD si è da sempre cercato di inquadrare il paziente con PAD in classi di gravità che  identificassero  adeguate necessità terapeutiche.

Per definire la gravità della PAD per molti anni è stata utilizzata la classificazione di Lèriche-Fontaine o la  categorizzazione di Rutheford ambedue basate sulla presenza di dolore o di ulcerazione (tabella 2).  Queste classificazioni sono state ancora riportate dalla TASC II

Tabella 2 Classificazione di Fontaine e  Rutheford riportate dalla TASC II

Fontaine Rutheford
Stage Clinica Grado Categoria Clinica
I asintomatico 0 0 asintomatico
IIa claudicatio lieve I 1 claudicatio lieve
IIb claudicatio moderata o severa I 2 claudicatio moderata
    I 3 claudicatio severa
III dolore a riposo II 4 dolore a riposo
IV ulcera or gangrena III

III

5

6

lesione piccola

lesione vasta

 

Queste classificazioni ancora oggi molto usate in studi effettuati da chirurghi vascolari mal si adattano ai diabetici in cui la presenza di neuropatia può abolire, in parte o totalmente, il dolore al cammino e anche a riposo. Anche la presenza di gangrena può essere l’evoluzione di una infezione in una ulcera neuropatica ed essere indipendente dalla presenza di ischemia.

Una classificazione che è stata molto usata è la classificazione di Wagner che ha come discriminante di gravità la profondità dell’ulcera (tabella 3). Non viene considerata la presenza di arteriopatia (97).

Tabella 3  Classificazione di Wagner

Classificazione di  Wagner
grado 0 la cute è intatta. vi sono deformità come callosità griffe, prominenza delle teste metatarsali, prominenze
grado 1 vi è un’ulcera superficiale.
grado 2 la lesione è profonda  ed essere estesa oltre la fascia. non vi è ascesso o osteomielite.
grado 3 vi è ascesso, osteite o osteomielite. l’esatta estensione della lesione è frequentemente difficile da determinare con il solo esame superficiale.
grado 4 vi è gangrena delle dita o dell’avampiede. la gangrena può essere asciutta o umida.
grado 5 il piede è totalmente colpito dalla gangrena e non è possibile una terapia locale.

 

Nel 1988 la Texas University ha proposto una classificazione che unendo la profondità dell’ulcera, la presenza di infezione e la presenza di ischemia graduava con grande precisione la probabilità di amputazione maggiore (98) (tabella 4). Questa classificazione sembra essere al momento la più adatta a descrivere il rischio amputativo di un paziente diabetico.

Tabella 4  University of Texas Wound Classification System: prevalence of amputation within each wound category (from ref 98)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

The International Working Group of the Diabetic Foot  ha recentemente sviluppato una  classificazione a scopo di ricerca  – la classificazione PEDIS – abbastanza simile alla Texas: nella  PEDIS le ulcere sono classificate per  perfusione,  profondità, infezione, sensibilità (tabella 5 ) (99).

Tabella 5  Classificazione delle ulcere  PEDIS

 

Tutte queste classificazioni però non davano indicazioni sulla gravità dell’ischemia necessaria per essere ad alto rischio d’amputazione. L’osservazione epidemiologica che la pressione sistolica agli arti inferiori e l’ossimetria transcutanea al dorso del piede erano discriminanti prognostici oggettivi d’amputazione in soggetti con arteriopatia periferica, ha spinto a utilizzare questi parametri come parametri  capaci di individuare un grado tale d’ischemia da porre ad alto rischio la sopravvivenza dell’arto nell’arco di 6-12 mesi. Questo grado di ischemia è stato chiamato Critical Limb Ischemia  (CLI) e i parametri diagnostici sono stati individuati nella pressione sistolica alla caviglia o all’alluce e nella ossimetria transcutanea al dorso del piede.

Numerosi Consessi Internazionali hanno cercato di individuare i cut-off di pressione e di ossimetria più consoni a individuare soggetti con ischemia critica (101).

In tabella 6 sono esposti i criteri diagnostici di CLI della TASC che rispetto alle precedenti Consensus presenta cut-off pressori più elevati sia pressori che ossimetrici.

Tabella 6 Criteri diagnostici di CLI della TASC 2000

 

TransAtlantic  Inter-Society  Consensus

ISCHEMIA CRITICA CRONICA: CRITERI DIAGNOSTICI   (TASC)

soggetti con ulcera o gangrena o dolore a riposo

causato da arteriopatia periferica

con alta probabilità di amputazione a 6-12 mesi

con

pressione alla caviglia  < 50-70 mmHg o all’alluce < 30-50 mmHG

o

ossimetria transcutanea   < 30-50 mmHg

 

 

La TASC è largamente usata in tutti gli studi che trattano di CLI. A nostro parere questi parametri corrispondono perfettamente ai quadri clinici che si ritrovano nella pratica clinica quotidiana, e permettono un salvataggio d’arto nella quasi totalità dei pazienti che con la rivascolarizzazione ottengono valori superiori ai cut-off indicati.

Nel gennaio 2007 la seconda edizione della TASC II (102). Rispetto alla TASC 2000 presenta principalmente un cut-off  di ossimetria transcutanea più ridotto: da 50 mmHg a 30 mmHg (tabella 7)

Tabella 7 Parametri diagnostici di ischemia critica cronica della TransAtlantic  Inter-Society  Consensus II (TASC II)

 

 

PARAMETRI DI ISCHEMIA CRITICA CRONICA (TASC II)

  • Pressione alla caviglia –  In pazienti con ulcera ischemica è tipicamente  50-70 mmHg e in pazienti con dolore ischemico a riposo tipicamente 30-50 mmHg
  • Pressione all’alluce – può includere pazienti diabetici (soglia critica <50 mmHg)
  • tcPO2 (soglia critica <30 mmHg)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Accanto a questi parametri vengono riportate metodiche diagnostiche microcircolatorie  che non offrono cut-off precisi. Nella tabella 8 vengono riportate queste indicazioni.

Tabella 8 Indicazioni per indagini sul microcircolo della  TASC II

 

INDAGINI SUL MICROCIRCOLO  (usualmente a scopo di ricerca)

CLI è associata a riduzione totale e anche a una maldistribuzione del circolo e ad attivazione di processi infiammatori.  Una combinazione di  tests per valutare la guarigione e quantificare il flusso può essere usata a causa della modesta sensibilità e specificità di un singolo test :

– capillaroscopia

– videomicroscopia in   fluorescenza

– flussometria Laser Doppler

 

Il motivo per cui sono state introdotte come parametri diagnostici di ischemia critica anche se con la minimamente dovuta precisazione di scopo di ricerca è misterioso: tutti i parametri indicati hanno una soggettività di interpretazione e una capacità di fornire dati molto dipendente dallo strumentario utilizzato. Le esperienze da noi fatte sia con laser Doppler che con capillaroscopia sono state estremamente deludenti (figura 28).

Figura 28 utilizzo di capillaroscopia nel nostro ambulatorio e immagine capillaroscopica visibile allo schermo

A nostro parere mentre i parametri della TASC 2000 identificano con completezza  i pazienti che richiedono categoricamente la rivascolarizzazione per evitare la amputazione,  il parametro ossimetrico della TASC II ridotto a 30 mmHg esclude soprattutto  i pazienti con ossimetria  compresa tra 30 e 40 mmHg che hanno nella nostra casistica ancora un rischio di amputazione maggiore troppo alto per essere  accettabile. La figura  29

evidenzia la percentuale di amputati in relazione ai valori ossimetrici (TcPO2)   ottenuti con la rivascolarizzazione in una nostra recente pubblicazione (103).

Figura 29 percentuali di amputazione maggiore in base ai valori ossimetrici  in 564 diabetici con CLI (da referenza 103).

Vengono invece confermati i parametri di pressione alla caviglia. La pressione alla caviglia e all’alluce, così come l’ABI hanno una ottima accuratezza nella popolazione non diabetica (104,105).

Questa accuratezza non trova riscontro nella popolazione diabetica (106).

Nei diabetici con arteriopatia periferica è nota una alta prevalenza di calcificazioni della media e la capacità di queste calcificazioni di sovrastimare la pressione arteriosa o di impedirne la misurazione (107).

Questa problematica ha una rilevanza ben diversa nei pazienti asintomatici rispetto ai pazienti con CLI. Nei diabetici asintomatici la prevalenza di ABI > 1.30, valore universalmente accettato come significativo di presenza  di calcificazioni della media, è abbastanza limitato e comunque un falso valore di ABI in questi pazienti può comportare un ritardo nella diagnosi ma non un rischio amputativo immediato (10). Ben diversa la situazione in presenza di ischemia critica: in questi pazienti  la sottostima della gravità della arteriopatia può comportare il differimento nella rivascolarizzazione, sottotrattamento a cui è legato un alto rischio di amputazione (108).

La prevalenza di calcificazioni della media è molto più alta in questi pazienti.  Già Gibbons nel 1979 aveva riferito che in circa il 50% dei pazienti la pressione arteriosa nell’arto inferiore era sovrastimata a causa della presenza di calcificazioni (109).

In figura 30  la presenza di calcificazioni delle arterie della coscia (femorale superficiale e della gamba (tibiale anteriore e posteriore).

Figura 30 calcificazioni della media nella tibiale anteriore e posteriore  nelle arterie del piede

Nelle nostra esperienza questo dato viene sostanzialmente confermato:   in nostri vari  lavori la prevalenza di pazienti con pressione alla caviglia non fattibile o sovrastimata è stata sempre di circa il 40% .

L’enfasi con cui viene sottolineata l’estensibilità della misurazione della pressione all’alluce nei pazienti diabetici ci pare curiosa: nella nostra esperienza la determinazione della pressione all’alluce è ancor meno fattibile della pressione alla caviglia. Quando vi sono calcificazioni nelle arterie della gamba queste sono presenti anche nelle arterie metatarsali come si vede nella figura 31 e anche a questo livello la pressione sarà falsata.

Figura 31  calcificazioni arteriose nelle arterie metatarsali

 

In una grande percentuale di pazienti il primo dito è ulcerato o mancante per pregressa minor amputation. La figura 32 è una summa di infattibilità della determinazione della pressione all’alluce nei diabetici.

Figura 32 calcificazioni arteriose nelle arterie tibiali e metatarsali in paziente con amputazione transmetaatrsale

 

 

 

 

 

 

 

 

Questa problematica è particolarmente evidente e rilevante nei pazienti con CLI e lesione del piede: è proprio in questi pazienti che è più a rischio il salvataggio d’arto. E’ conseguentemente in questi pazienti che è più pressante la fattibilità di un parametro diagnostico accurato. La presenza di calcificazioni o di lesione del primo dito comporta nelle nostre casistiche una infattibilità di rilevazione della pressione all’alluce in circa il 70-80% dei pazienti. (figura 33) (110)

Figura 33 pazienti con lesione del 1° dito che impedisce la rilevazione della pressione

 

Resta quindi la possibilità di ottenere questo parametro in una quota molto modesta di pazienti. Come dato di valutazione quindi in una popolazione la scarsa fattibilità della pressione al dito rende questo parametro poco utilizzabile. Come dato ottenibile nel singolo paziente quando fattibile la pressione al dito  è certamente utile come parametro di irrorazione dell’avampiede (figura 34).

Figura 34 determinazione della pressione al 1° dito nel nostro ambulatorio

A conclusione delle osservazioni sulla fattibilità della misurazione della pressione alla caviglia e all’alluce, si mette in rilievo che il primo requisito della fattibilità di queste misurazioni è la pervietà alla caviglia di almeno una arteria tibiale: nella nostra casistica circa un terzo dei diabetici con CLI non hanno nessuna arteria infrapoplitea pervia.

L’ossimetria transcutanea misura in condizioni di vasodilatazione termica indotta costante (t = 44°) l’ossigenazione cutanea al dorso del piede (figura 35) (111)

Figura 35  Ossimetro transcutaneo e elettrodo di Clark posizionato sul dorso del piede

 

Esprime un dato funzionale complessivo dell’irrorazione dell’arto,  indicativa della gravità dell’ipossia tissutale, sia che derivi da un deficit micro che macrocircolatorio o da ambedue (112).

L’ossimetria è considerata una «misurazione obiettiva» dell’efficacia di trattamento terapeutico sia farmacologico che ricostruttivo (113,114). Segnaliamo che il miglioramento della ossimetria transcutanea dopo PTA ha un progressivo incremento nel tempo: il dato misurato immediatamente dopo la procedura può essere quindi poco profetico se basso. Opportuno attendere almeno dieci giorni per avere un dato effettivo sulla efficacia della rivascolarizzazione con PTA (115)

L’ossimetria transcutanea è pertanto un indice polivalente in grado di fornire informazioni diagnostiche sull’esistenza di ischemia critica, indicazioni prognostiche sulla necessità d’amputazione e sulla scelta del livello d’amputazione, una misurazione obiettiva del miglioramento indotto dall’approccio terapeutico.

Segnaliamo che la presenza di edema o la presenza di un pannicolo adiposo particolarmente abbondante  rendono meno precisa la misurazione ossimetrica.

Fondamentale vantaggio dell’ossimetria rispetto alla determinazione della pressione alla caviglia  è che è fattibile nella totalità dei pazienti e questo rende l’ossimetria, nonostante alcuni limiti,  un esame  indispensabile nella diagnosi di ischemia critica nei diabetici (116).

La metodica non invasiva gold-standard è l’ecoDoppler, che unisce la tecnica ecografica all’analisi Doppler (117,118).

Questo esame fornisce:

  • una localizzazione della sede delle ostruzioni e una differenziazione tra stenosi e occlusioni.
  • diametro delle arterie periferiche
  • morfologia delle pareti arteriose

In figura 36 visualizzazione di flusso (color) e in figura 37 morfologia della tibiale anteriore

Figura 36 visualizzazione di flusso (color eco Doppler) della tibiale anteriore

Figura 37 valutazione morfologica della parete arteriosa

La valutazione delle onde Doppler permette una stima della severità delle ostruzioni sulla base della stima della velocità di flusso (PSV: peak systolic velocity, cm/sec) (119,120) (figura 38).

Figura 38  PSV: peak systolic velocity, cm/sec

          

Dove la ratio è il rapporto tra la velocità di flusso a livello della stenosi diviso la velocità prima della stenosi. Per una stenosi al 50%  la ratio aumenta del doppio e sale vertiginosamente per osteruzioni di calibro maggiore.

Tuttavia se la valutazione della velocità di picco è suggestiva dal punto di vista della valutazione morfologica della gravità della stenosi nei pazienti con singola stenosi, nei diabetici in cui spesso le ostruzioni sono diffuse lungo tutto l’asse femoro-popliteo e sottopoliteo questa valutazione diventa non solo molto indaginosa ma anche poco utile.

In figura 39 esempi di immagini di arterie sottopoplitee ottenute con strumento ecocolorDoppler con rappresentazione grafica delle onde

Figura 39 immagini di arterie sottopoplitee ottenute con strumento ecocolorDoppler con rappresentazione grafica delle onde

 

L’ecoDoppler  è ritenuto molto sensibile e specifico per la valutazione diagnostica dei grossi vasi della coscia: in questa sede è considerato da alcuni autori sufficiente per una scelta terapeutica ricostruttiva anche in assenza di studio arteriografico e in effetti può essere sufficiente per bypassare una occlusione femorale su una poplitea pervia come spesso avviene nei non diabetici (121-124).

Nei diabetici però la frequentissima presenza di ostruzioni nell’asse infrapopliteo necessita di una valutazione accurata del run-off: la pervietà dei vasi periferici alla caviglia e dell’arcata plantare è indispensabile per stabilire l’estensione della malattia occlusiva e la scelta della metodica di rivascolarizzazione più idonea.

L’ecoDoppler perde di accuratezza nei vasi della gamba quando sono calcifici, come spesso si riscontra nei diabetici e attualmente solo con strumenti moderni molto sofisticati si è in grado di valutare le arterie alla caviglia e  l’arcata plantare. La valutazione della peroniera non è agevole e nella nostra esperienza molto spesso non viene nemmeno  riportata nei referti (125) .

In mani esperte l’ecoDoppler è essenzaile per la valutazione del run-off in previsione di eventuale bypass o per valutazione del risultato dopo PTA.

Un recente lavoro di Eiberg et al (126)  ha tracciato una mappa di accuratezza dell’ecoDoppler rispetto all’arteriografia digitalica  nelle varie arterie dell’arto inferiore(124) (figura 40).

Figura 40 concordanza tra ecoDoppler e angiografia digitalica nelle varie arterie dell’arto inferiore (da referenza 126)

 

La  concordanza tra Doppler e DSA con la femorale  è risultata ottimale: K=0.81 (95% CI 0.76-0.90).

La concordanza tra Doppler e DSA nelle arterie sottopoplitee è risultata molto scarsa: K=0.35 (95% CI 0.12-0.57

In questa mappatura noi ritroviamo la nostra esperienza che vede anche addirittura non refertate le arterie sottopoplitee.

La valutazione delle pressioni segmentali richiede tempo ed è anch’essa ostacolata dalla presenza di calcificazioni: quasi mai l’abbiamo vista nei referti Doppler non provenienti da Centri dedicati alla cura del piede diabetico, e a volte neanche da questi (127).

Il limite principale dell’ecoDoppler sta nell’abilità dell’operatore: troppo spesso abbiamo visto ecoDoppler del tutto inattendibili, fuorvianti per una diagnosi di presenza di PAD (figura 41 e 42).

Figura 41 EcoDoppler con coclusione grossolanamente sbagliata

 

 

Figura 42  EcoDoppler se accurato nella morfologia, completamente sbagliato nella conclusione

 

 

 

 

 

Va sottolineato  come negli USA l’esecuzione di un esame ecoDoppler è di pertinenza di un operatore specializzato non medico e al medico viene demandata l’interpretazione dell’esame mentre in Europa sia l’esecuzione che la  refertazione dell’esame è di pertinenza medica. Tuttavia l’esecuzione di un esame ecoDoppler non richiede specializzazione alcuna: è possibile che medici senza alcuna esperienza di arteriopatia diabetica refertino un ecoDoppler ? La risposta è si. Concordiamo assolutamente con la richiesta invocata da Moneta et al sulla necessità di un accreditamento per gli esecutori di questa indagine diagnostica (128).

In un mondo ideale (naturalmente per noi) si dovrebbe smettere di chiedere l’ecoDoppler come tecnica di screening per sapere se esiste o meno l’arteriopatia periferica: dovrebbe perciò scomparire il diabetologo che senza far togliere calze e scarpe e palpare i polsi al paziente compila la sua brava richiesta di ecoDoppler. Questo esame andrebbe riservato a districare quesiti specifici: lo stent è chiuso ? se non sento i polsi al piede siamo in presenza di una arteriopatoa diffusa ? dovendolo inviare ad angiografia ed eventuale PTA ho un buon run-off al pied ? c’è una fistola rifornita ? etc.

L’ecoDoppler è essenziale nella valutazione del calibro e sanità della safena per decidere se usabile per il BPG. É  essenziale nel follow-up del BPG che ne prevede l’esecuzione secondo un preciso timing (129).

Tuttavia in molti casi anche la pervietà del BPG può essere valutata clinicamente con la palpazione dei polsi periferici o dello stesso BPG quando anatomicamente aggradibile (figura 43)

Figura 43 valutazione della pulsatilità di BPG con la palpazione

Sono considerate indagini diagnostiche vascolari di eccellenza immagini ottenute con angio-TAC o angio-RM (figura 44) (130,131).

Figura 44 angio-TAC e angio-RMN

 

Le immagini fornite da queste tecniche  sono indubbiamente suggestive ma non sono a nostro parere accurate nelle arterie più periferiche e la presenza di calcificazioni è ancora una fonte di possibile errore (132,133).

L’evoluzione rapidissima della tecnologia fa ritenere probabile che in breve tempo queste metodiche raggiungeranno una eccellenza diagnostica elevatissima (figura 45).

Figura 45 immagini di angio-risonanza eseguita nel 2011.

Tuttavia, al di là della bellezza iconografica di queste metodiche,  il problema essenziale è se queste tecniche diagnostiche siano necessarie per stabilire se è indicata o meno la rivascolarizzazione. La valutazione della presenza di CLI con la determinazione della ossimetria transcutanea e della pressione alla caviglia quando fattibile fornisce una indiscutibile indicazione alla  rivascolarizzare in presenza di un’ulcera del piede.

Nel nostro protocollo l’angiografia e la PTA vengono eseguite quando possibile nello stesso tempo. Questo consente di ridurre drasticamente lo stress per il paziente e la quantità di mezzi di contrasto necessari per un doppio tempo, il primo diagnostico e il secondo terapeutico. Questo è l’elemento essenziale per cui nel nostro protocollo non vi è uno spazio per queste metodiche. Attualmente nelle nostre casistiche l’80% dei pazienti viene sottoposto a PTA come prima scelta di rivascolarizzazione.

Vi sono poi altre considerazioni: l’alto costo e l’attuale scarsa diffusione di eccellente strumentazione non rendono tale metodica proponibile al momento per un uso diffuso. Vi è poi da considerare che necessitino anch’esse di mezzo di contrasto che si assommerà al mezzo di contrasto arteriografico che andrà in ogni caso effettuato se si ritiene indicata una angioplastica o una procedura chirurgica molto distale (134,135).

Se si tiene conto dell’ enorme incremento dell’uso della PTA ():  ci si rende conto come l’utilizzo di metodiche invasive pre-rivascolarizzazione diventi enorme e i costi conseguentemente enormi (figura 46) (136).

Figura 46 trend nell’uso di PTA, BPG e amputazioni maggiori in USA nel periodo 1996.2006 in USA (da referenza 136)

Utilizziamo queste metodiche in casi particolari in cui al di là della diagnosi di ischemia si sospetta una patologia  particolare solitamente post rivascolarizzazione (fistola, dissezione, aneurisma, etc). Comunque tutto va bene  purché si arrivi a rivascolarizzazione i pazienti con CLI.

L’angiografia digitale è lo strumento diagnostico gold-standard, che risponde appieno anche nei diabetici alla necessità di una precisa definizione dell’esistenza, estensione, localizzazione e morfologia delle lesioni arteriose. L’arteriografia nei diabetici è stata in passato descritta come a rischio di complicazioni più severe rispetto ai non diabetici, soprattutto per quanto riguarda la tossicità renale del mezzo di contrasto. La letteratura ed anche la nostra esperienza indicano che usando protocolli di idratazione pre e post esame il rischio di tossicità renale è molto basso anche nei diabetici (137-141).

Non si è ancora chiarito se l’effeto di protezione renale sia dato dalle varie sostanze aggiunte nei vari studi (aceti-cisteina, bicarbonato, mannitolo, etc)  all’idratazione o all’idratazione sic et simpliciter, come noi pensiamo (142).

E’ evidente che in assenza di indicazione alla rivascolarizzazione l’arteriografia come strumento esclusivamente diagnostico è totalmente inutile in quanto afinalistico. In questi casi il rischio di nefropatia è totalmente gratuito.

 

CARATTERISTICHE DELLA CLI NEI DIABETICI

 

Non vi sono diversità nelle caratteristiche istologiche delle placche aterosclerotiche tra diabetici e non diabetici (12,13). Sono invece profondamente diverse le caratteristiche cliniche:

  1. la localizzazione delle ostruzioni è prevalentemente distale
  2. le pareti arteriose sono molto spesso calcifiche
  3. prevalgono le occlusioni rispetto alle stenosi.

La caratteristica  peculiare dell’arteriopatia nel diabetico è la sua diffusione nell’asse infrapopliteo (143,144).

Mentre nel non diabetico le placche ostruenti sono normalmente localizzate nell’asse femorale e le ostruzioni sono brevi, nel diabetico la presenza di ostruzioni nel solo tratto prossimale e di ostruzioni brevi è rara, quasi eccezionale: solo il 5% nelle nostre casistiche. In circa il 30% dei pazienti la malattia occclusiva è localizzata solo nel asse sottopopliteo e nel 60%  la  malattia è diffusa sia nell’asse femoro-popliteo che nell’asse infrapopliteo. La figura 47 riporta la localizzazione delle ostruzioni in una nostra casistica pubblicata nel 2002: negli gli anni successivi questa distribuzione è stata costantemente confermata (145).

Figura 47 localizzazione delle ostruzioni in 219 diabetici ricoverati per CLI (da referenza 145)

 

 

 

Queste  caratteristiche anatomiche  e le difficoltà nell’approccio diagnostico sono alla base del ruolo fondamentale che la CLI gioca come determinante prognostico principale d’amputazione maggiore, sopra la caviglia (146).

Rispetto alla popolazione generale nei diabetici vi è una più alta percentuale di presenza di gangrena, di procedure contemporaneamente femoro-poplitee e infrapoplitee, l’assenza di pazienti claudicanti.

L’arteriopatia periferica è una complicazione sottodiagnosticata nel diabete, ma la CLI lo è ancor di. Ancora in recenti review sul piede diabetico e nell’ultimo  Position Statement dell’ADA del 2003 (12) la CLI non viene nemmeno citata o viene liquidata con poche righe (147-149).

La presenza di occlusioni calcifiche della femorale superficiale non superabile dalla guida è un ostacolo a volte insormontabile per l’effettuazione di una angioplastica e la mancanza di arterie pervie al piede un ostacolo alla rivascolarizzazione chirurgica. In centri dedicati al trattamento del piede diabetico è stata raggiunta una elevatissima capacità di rivascolarizzare fino al piede e di ottenere conseguentemente una  elevatissima percentuale di salvataggio d’arto. Si sottolinea però che la rivascolarizzazione è una condizione indispensabile ma non di per sé sufficiente se vi è una lesione del piede: se questa è presente la cura ottimale della ulcera è indispensabile per ottenere il salvataggio d’arto.

 

Microcircolo Nei diabetici è presente un danno dei piccoli vasi  specifico della  malattia diabetica.

Questo danno è alla base delle complicanze “microangiopatiche”: retinopatia, neuropatia, nefropatia. L’arteriopatia periferica così come la cardiopatia ischemica e l’arteriopatia cerebro-vascolare viene associata alle complicanze “macroangiopatiche”. Nel corso degli anni vi è stata un dibattito sulla prevalente patogenesi micro o macroangiopatica del piede diabetico (150-154).

Già la Conrad alla fine degli anni 60 ma soprattutto negli anni 80 con il lavoro di LoGerfo l’acquisizione della patogenesi macroangiopatica del piede diabetico ischemico è divenuta asserzione inconfutabile (155-156).

Nonostante il ruolo prognostico preminente sul salvataggio d’arto sia dato della patologia ostruttiva de grossi vasi, può coesistere anche una malattia occlusiva del microcircolo che si evidenzia con alterazioni strutturali, principalmente  un ispessimento della membrana basale, e funzionali, principalmente una diminuita vaso reattività (157-159).

La presenza di shunts artero-venosi  è di incerta rilevanza (160,161).

Il ruolo delle alterazioni del microcircolo sia sulla patogenesi che sulla prognosi del piede diabetico è ancora da chiarire (162,163).

 

INDICAZIONI ALLA RIVASCOLARIZZAZIONE

 

Le procedure vascolari, endoluminali o chirurgiche, sono in grado di ripristinare un flusso diretto arterioso laddove questo è interrotto o significativamente diminuito. Il trattamento con angioplastica (PTA) o baypass periferico (BPG) si è dimostrato essere l’unico trattamento in grado di diminuire significativamente il numero di amputazioni maggiori (2,164-167).

Trattamenti con prostanoidi, ossigenoterapia iperbarica, stimolatori epidurali, ozonoterapia  rappresentano terapie adiuvanti aggiuntive con specifiche indicazioni ma non sono trattamenti sostitutivi della rivascolarizzazione diretta (168-171).

Le  caratteristiche anatomiche  e le difficoltà nell’approccio diagnostico sono alla base del ruolo fondamentale che la CLI gioca come determinante prognostico principale d’amputazione maggiore, sopra la caviglia (172).

Un ostacolo rilevante alla rivascolarizzazione è stato in passato l’errato concetto che alla base del piede diabetico ischemico vi fosse la microangiopatia diabetica e non l’arteriopatia ostruttiva. Questo errore concettuale è stato definitivamente sepolto nel corso di questi anni, anche se alcuni autori ritengono che ancora esista (14).

Restano però alcuni dubbi sull’utilizzo congruo della rivascolarizzazione. Riportiamo la frase di Kenneth Ouriel su Lancet 2001 con cui concordiamo totalmente:

“revascularisation is UNQUESTIONED  as appropriate therapy  for patients with  CLI  directed at the prevention of limb-loss and accompanying disability” (91)

Essenziale in questa frase è la citazione di “CLI” e “lesione del piede”.

In questa affermazione è contenuto un concetto indispensabile per chi si occupa di piede diabetico: la rivascolarizzazione è indispensabile per curare il piede ma non è sufficiente per guarirlo: se ci si limita a riva scolarizzare e non ci si prende cura dell’ulcera quel piede rivascolarizzato potrà anche andare perso. La figura 48 mostra un caso in cui è stata fatta una eccellente rivascolarizzazione (tibiale posteriore in A, loop della pedidia tramite planater in B) risultato finale in C) che ha consentito il successo della seguente cura della lesione: ma senza la cura della lesione è certo che quel piede non si sarebbe salvato.

Figura 48 eccellente rivascolarizzazione (tibiale posteriore in A, loop della pedidia tramite planater in B risultato finale in C che ha consentito il successo della seguente cura della lesione: ma senza la cura della lesione è certo che quel piede non si sarebbe salvato.

 

 

L’uso di queste procedure è indispensabile quando vi è ischemia critica, e cioè dolore a riposo e/o una lesione del piede.  E’ indispensabile quando vi sia necessità di un intervento chirurgico di bonifica di una gangrena di parte del piede in presenza di CLI. Consideriamo imperizia procedere a un intervento chirurgico di amputazione minore senza provvedere prima  a una diagnosi esaustiva di CLI e senza provvedere, se presente, contemporaneamente alla rivascolarizzazione.

 

Modalità della rivascolarizzazione: dati storici. Anche se, come detto, già nel 1967 la Conrad mostrava una identica pervietà dei vasi alla caviglia tra diabetici e non diabetici, bisognerà aspettare fino al 1984 perchè il paper di LoGerfo e Cofman  affermasse sul New England Journal of Medicine che “The term “small-vessel disease inasmuch as it suggests occlusive lesions, is misleading and should not be used to describe vascular diseasein the diabetic patients ” (173).

A seguire i lavori   pubblicati all’inizio degli anni 90 dai “vascular surgeons of the Vascular Surgery Department of the Deaconess Hospital in Boston”: l’implementazione nei diabetici  della rivascolarizzazione con BPG consentiva una alta percentuale di salvataggio d’arto (2)

Pionieristicamente si dimostrava che BPG molto distali erano possibili ed efficaci anche nei diabetici (174)  (figura 49).

Figura 49 dati di fattibilità ed efficacia della rivascolarizzazione chirurgica della chirurgia vascolare del Massachussetts Hospital di Boston (da referenza 157).

 

 

In quegli anni  nella nostra esperienza la fattibilità di un BPG non era elevata: pur avendo ottenuto con la creazione di un team dedicato alla cura del piede diabetico una importante diminuzione della amputazioni maggiori (figura 50) (175)

Figura 50 amputazioni maggiori effettuate in diabetici ricoverati per ulcera del piede in unità operative diverse in diversi periodi (da referenza 175)

 

 

La capacità però di rivascolarizzare con BPG era ancora molto bassa: all’incirca il  25% dei pazienti (figura 51)

Figura 51 Numero di esami angiografici e BPG effettuati negli anni 1990-1993 nel centro per il piede diabetico dell’ospedale di Niguarda (da referenza 175)

  angiografia bypass
79-81

n = 42

4

9.5%

2

4.8%

86-89

n = 78

44

56.4%

10

12.8%

90-93

n = 115

98

85.2%

29

25.2%

 

 

Questa nostra esperienza  sembrerebbe  confliggere con i dati assolutamente eccellenti delle casistiche di Lo Gerfo dei primi anni 90 e di Pomposelli degli anni seguenti. Tuttavia nei report di questi autori non sono reperibili i dati di fattibilità perchè in questi lavori vengono riportati solo i dati di outcome dei pazienti sottoposti a BPG e non viene riportata la percentuale di pazienti in cui il BPG non è stato fatto, le motivazione della infattibilità  e i relativi outcomes. In  un lavoro della scuola di Boston  relativo a pazienti amputati solo il 60% degli amputati era stato rivascolarizzato (176).

In alcune delle rare casistiche di centri di chirurgia vascolare che riferiscono di casistiche non selezionate il numero di pazienti esclusi dal BPG appare consistente e l’uso di PTA in rapido incremento (177,178).

In una nostra casistica del 2009 recentissimamente pubblicata un BPG è stato giudicato fattibile in poco più del 60% dei pazienti, con un notevole incremento quindi rispetto a quel 25%  del 1990 ma ancora con una fattibilità limitata (179).

Questa percentuale conferma la scarsa fattibilità del BPG nei diabetici.

L’unico studio randomizzato su PTA o BPG nella popolazione generale è il Basil Study (180). La disamina di questo studio al di là del valore dei risultati, accettati soprattutto perché confermano i risultati della pratica clinica, è particolarmente utile per valutare la complessità del problema.

In questo studio circa la metà dei soggetti da eleggere sono stati giudicati non eleggibili per lo studio: “129  needed supra-inguinal (aorto-iliac) intervention and were therefore not the subject of the trial. Of the remaining 456 patients with severe limb ischaemia (?) due to infra-inguinal disease 220 were treated without revascularisation…..….22 refused trial entry”. Il fatto che ben 220 pazienti non siano stati rivascolarizzati fa dubitare che avessero una “severe limb ischemia”.

A questo si aggiunge che “the main reason or not randomly assigning the remaining 386 patients was that the leg could not be revascularised by either surgery or angioplasty in 154 (34%)”. Non è chiaro quale sia stata la causa prevalente di non rivascolarizzazione, se la PTA o il BPG.

I risultati di questo studio più che confermare una sovrapponibilità di outcomes tra PTA e BPG confermano a nostro avviso che è impossibile effettuare uno studio randomizzato su questo tema non solo da un punto di vista etico ma anche dal punto di vista pratico.

Va poi sottolineato che negli outcomes riferiti dal BASIL manca il dato degli outcomes dei diabetici presenti nello studio.

A causa di questa scarsa fattibilità del BPG già negli anni 90 avevamo utilizzato l’angioplastica come via alternativa quando non giudicato fattibile la rivascolarizzazione chirurgica (181). La figura 52 mostra un caso di PTA sulla tibiale posteriore a livello del malleolo: già in quesgli anni cercavamo di rivascolarizzare “fino al piede” la cui indispensabilità per il salvataggio d’arto dimostreremo in un successivo lavoro.

Figura 52 PTA della tibiale posteriore a livello malleolare (da referenza 181)

 

Già infatti in quegli anni comparivano lavori che enfatizzavano la capacità della PTA nella rivascolarizzazione anche infrapoplitea. Questa possibilità sembrava particolarmente adatta alla popolazione diabetica dove le arterie sottopoplitee erano quasi sempre coinvolte (182).

E’ dalla fine degli anni 90 che l’uso della PTA anche infrapoplitea ha trovato in vari Centri di Diabetologia Italiani un uso estensivo e ha consentito di ottenere una alta fattibilità nella rivascolarizzazione e nel salvataggio d’arto in diabetici con CLI e lesione del piede.

 

Modalità della rivascolarizzazione:

endovascolare, chirurgica e combinata

Angioplastica Il primo passo è l’esecuzione di una arteriografia: l’arteriografia a sottrazione digitalica è ancor oggi il gold standard per la visualizzazione delle arterie del piede ed è indispensabile per decidere se è fattibile una rivascolarizzazione immediata con angioplastica (figura 53).

Figura 53 visualizzazione delle arterie del piede con angiografia

 

 

Nella nostra pratica clinica privilegiamo l’angioplastica quando possibile perchè non richiede anestesia generale, è molto ben sopportata, non pone problemi di trattamento locale della ferita chirurgica, non impedisce, in caso di fallimento, ulteriori procedure come il by-pass. In letteratura vi è qualche indicazione contrastante a questa affermazione e

Vi è da sottolineare come  nei convegni il mormorio su questo argomento è molto forte: secondo alcuni chirurghi vascolari spesso durante la PTA vi è una distruzione delle arterie della gamba per cui non è più possibile effettuare alcun BPG. Nella nostra esperienza questo non è assolutamente vero: abbiamo però visto arrivare pazienti sottoposti a PTA in altri centri in cui erano stati messi tanti stent che sembravano un negozietto di chincaglieria. In particolare è una grossa sciocchezza  mettere degli stent in femorale comune, situazione questa che può effettivamente impedire un successivo BPG extra addominale. Questo però non è un problema della PTA ma degli operatori della PTA: ce ne sono di scadenti tal quale vi sono chirurghi e diabetologi scadenti (183).

Se è possibile una angioplastica questa viene effettuata immediatamente nello stesso tempo della angiografia, con ovvio vantaggio per il paziente. La PTA viene effettuata in sale radiologiche dedicate alla rivascolarizzazione degli arti inferiori con attrezzature specifiche per questo scopo (figura 54)

Figura 54 sala radiologica dedicata alla rivascolarizzazione degli arti inferiori

La morfologia e la lunghezza delle ostruzioni non viene tenuta in considerazione: se la PTA è fattibile, usualmente si fa. Un approccio di questo tipo è seguito ormai da molti operatori in Europa e soprattutto in Italia (184,185).

Il filmato “angioplastica “ mostra un intervento routinario di PTA ij un diabetico.

Vi è da sottolineare, pur non volendo entrare in un argomento molto tecnico specialistico che al dilà dell’approccio femorale anterogrado che ha dato alla fine degli anni 90 un fondamentale impulso alla possibilità di spingere il catetere fino all’estrema periferia, la strumentazione attualmente disponibile è diventata veramente molto sofisticata: cateteri molto lunghi,  palloncini di diametro sempre più piccoli (ormai al di sotto di 2 mm) e di lunghezza sempre maggiore, introduttori di French sempre più piccoli, aterotomi, kissing ballon, filtri per prevenzione dell’embolizzazione distale, approccio con puntura distale per PTA retrograda, etc (186-188) (figura 55).

Figura 55 puntura anterograda con introduttore 4-French

 

Sottolineo che l’uso attuale ormai preponderante di introduttori 4-French rispetto a introduttori 6 o 8-French usati all’inizio degli anni 2000 ha ridotto sostanzialmente a quasi zero gli ematomi da breccia arteriosa in sede di introduttore. La figura 56 mostra un bendaggio compressivo in sede di puntura inguinale da PTA: un bendaggio  ottimale  tenuto in sutu per 24 ore garantisce una minor probabilità di ematoma

Figura 56  bendaggio compressivo in sede di puntura inguinale da PTA

 

Un capitolo ancora aperto è l’uso di stent, soprattutto medicati, sia in arterie prossimali che sottogenicolari (figura  57)

Figura 57 varie tipologie  stent disponibili attualmente.

 

Non vi sono certezze che l’uso di stent nella femorale migliori la pervietà a distanza della PTA, contrariamente a quanto ormai dimostrato per la PTA iliaca.  Alcuni studi però fanno intravedere un miglior esito con stent medicati nei non diabetici (189) (figura 58).

Figura 58  diversa incidenza di restenosi in non diabetici trattati con stent medicati con Paclitaxel rispetto a stent non medicati  per lesioni femoro-poplitee.

 

La figura 59 riporta due diversi outcomes in pazienti trattati con stent non medicatie con stent medicati con paclitaxel.

Figura 59   diversi outcomes in pazienti trattati con stent non medicati (A;B;C: restenosi a 6 mesi) e con stent medicati con paclitaxel (DEF: nessuna restenosi a 6 mesi) (da referenza 189)

 

 

 

 

Tuttavia nei diabetici l’incidenza di restenosi resta maggiore anche con stent medicati (190) (figura 60).

 

 

 

 

Figura 60  significativa  peggior incidenza di restenosi in diabetici vs non diabetici con l’uso di stent autoespandibili in nitinolo per il trattamento dell’arteria femorale superficiale (da referenza 190)

 

Il problkema resta quindi ancora aperto sia a nuove sperimentazioni che a nuovi materiali (191,192) .  Il problema è ancor più lungi dall’essere risolto per le arterie sottogenicolari (193,194).  E ancor più lungi è la soluzione per i diabetici (195)

La figura 61 mostra alcune possibili scelte in base alla localizzazione sopra o sotto genicolare delle lesioni.

Figura 61  possibili scelte in base alla localizzazione sopra o sotto genicolare delle lesioni.

 

Se però il paziente è a basso rischio chirurgico e soprattutto ha arterie pervie al piede in grado di accettare un bypass, questo rappresenta una ottima opzione (196).

Ovviamente se il paziente ha un alto rischio chirurgico la PTA dovrà essere tentata in ogni caso. Il bypass periferico è considerato un intervento di chirurgia maggiore e le linee guida prevedono accertamenti preoperatori che, anche se attualmente messi in discussione, rimane difficile non fare anche puramente a scopo di protezione legale (197)

In letteratura esistono “score” per valutare il rischio chirurgico: i più usati attualmente sono il “PREVENT III CLI risck score” e il “revised Lee index”  (198-200)

In una nostra casistica del 2009 abbiamo stratificato  il rischio chirurgico secondo il PREVENT III CLI risk score in 344 pazienti con CLI: il risultato è esposto nella figura 62 (179).

 

Figura 62  PREVENT III CLI risk score in 344 diabetici con CLI sottoposti a PTA o BPG o non rivascolarizzabili (dati espressi come % nelle tre categorie) (da referenza 179)

Come si può vedere solo una piccola parte è considerata a basso rischio, la stragrande maggioranza dei pazienti è a rischio intermedio e una piccola parte ad alto rischio

 

Indicazioni alla rivascolarizzazione endoluminale Nel 2000 la TransAtlantic Inter-Society Consensus (TASC) indicava una stratificazione morfologica delle lesioni dell’arto inferiore e le relative raccomandazioni terapeutiche per l’uso della PTA o del BPG. Nel 2007 veniva edita una seconda edizione -TASC II- che ribadiva il concetto di stratificazione morfologica anche se con criteri molto più ampi per quanto riguarda la possibilità di utilizzare l’angioplastica come prima scelta di rivascolarizzazione. Veniva raddoppiata da 10 a 20 cm la lunghezza delle occlusioni nella femorale superficiale perché venisse esclusa la PTA  come prima scelta  di rivascolarizzazione. Per quanto riguarda le arterie sottopoplitee  pur rinunciando a mantenere l’indicazione di occlusioni  di lunghezza  > 2 cm per l’indicazione della chirurgia come prima scelta,  si manteneva la generica ma impegnativa dizione di “short lesion”.

Queste raccomandazioni sono sintetizzate nella figura 63

Figura 63 classificazione delle lesioni e raccomandazioni terapeutiche della TASC 2000 e 2007

 

Queste indicazioni sono di particolare rilevanza per i pazienti diabetici:  in una enorme  percentuale di questi pazienti vi sono occlusioni lunghe nell’asse femorale e soprattutto nell’asse infrapopliteo.

In uno studio su 360 arti in 344 diabetici con CLI ricoverati consecutivamente nel 2009 in quasi la metà degli arti tutte le arterie sottoplitee erano occluse e in circa tre quarti vi erano anche occlusioni o nella femorale superficiale o nella poplitea (figura 64) (179)

Figura 64 tipo e distribuzione delle ostruzioni in 360 arti inferiori di 344 pazienti (da referenza 179)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La tabella 9 riporta la stratificazione morfologica della TASC II delle lesioni femoro-poplitee e percentuale di PTA eseguita con successo in 360 arti

Tabella  9 classificazione  morfologica della TASC II  delle lesioni  femoro/poplitee e percentuale di PTA eseguita con successo in 360 arti

classificazione  TASC II

delle ostruzioni

numero delle

lesioni

PTA

efficace

A 42 42 (100%)
B 52 52 (100%)
C 50 42 (84.0%)
D 113 76 (67.3%)

 

Questo assetto anatomico  impedirebbe in un grande numero di questi pazienti di effettuare la PTA se le indicazioni TASC venissero rispettate. Ma in quanti di questi pazienti sarebbe poi stato possibile effettuare il bypass avendo tutti un basso rischio chirurgico e soprattutto almeno una arteria aperta al piede in grado di accettare  l’anastomosi distale ?

In figura 65  una ricanalizzazione con PTA di una occlusione completa della femorale superficiale all’origine e della poplitea con riabitazione della tibiale anteriore poco dopo l’origine. Il paziente era ad alto rischio chirurgico per cardiopatia post infartuale con compromissione della frazione di eiezione (25%). Sarebbe stato anatomicamente possibile un bypass femoro-tibiale anteriore, ma era sconsigliabile stante la situazione cardiaca. E’ stata effettuata una PTA che ha ricanalizzato tutto l’arto fino alla pedidia dove è stato effettuato anche un loop per la ricanalizzazione della plantare.

Figura 65 occlusione di tipo  D della TASC II in paziente ad elevato rischio chirurgico. Ricanalizzazione fino alla pedidia con dissezioni della SFA e delle arterie crurali rivascolarizzate che non hanno richiesto alcun intervento.

 

 

Molto più drammatico è il quadro della fattibilità della rivascolarizzazione nelle arterie sottopoplitee: occlusioni di lunghezza > 2 cm costituiscono più del 90% delle ostruzioni presenti nelle arterie infrapoplitee.

La figura 66 mostra uno dei tanti casi di arteriopatia che inizia a livello della poplitea  con occlusione completa di tutte le arterie sottopoplitee. E’ stata effettuata una PTA di tutte queste arterie che ha garantito un’ottima arteria plantare e di una pedidia  anche se non brillante.

Figura 66 occlusione poplitea e di tutte le 3 arterie sottopoplitee. PTA di tutte queste arterie che ha garantito un’ottima arteria plantare e di una pedidia  anche se non brillante.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Questa PTA commentata dal cardiologo interventista è visibile nel filmato intitolato “PTA di occlusione completa della arteria poplitea e delle arterie sottopoplitee

 

Nella casistica sopra riportata in 177  (49.2%) arti tutte le arterie infrapoplitee era occluse. In 172 arti  una PTA è stata fatta con rivascolarizzazione di almeno una arterie fino al piede (tabella 10)

Tabella 10  numero di arterie infrapoplitee ostruite prima e dopo la PTA

 

ARTERIE INFRAPOPLITEE OSTRUITE PRIMA E DOPO LA PTA
arterie ostruite (N) prima della  PTA dopo la  PTA
3 172 5
2 100 131
1 30 112
0 6 60

 

E’ evidente che in questi 172  pazienti mancava un vaso accettore al piede che permettesse un bypass. In assenza di PTA, il destino più probabile della maggior parte di questi pazienti sarebbe stato l’amputazione.

Come detto la PTA in mani esperte è fattibile su ostruzioni distali, lunghe, multiple.

L’obiettivo è sempre rivascolarizzare fino al piede, comprese le arterie del piede.

Nella figura 67 un esempio di PTA in paziente con flusso assente al piede: interruzione precoce di tibiale posteriore e peroniera, progressivo assottigliamento della tibiale anteriore che si occlude completamente al 1/3 inferiore di gamba. Ricanalizzazione

della tibiale anteriore e della pedidia

Figura 67  interruzione precoce di tibiale posteriore e peroniera (A), progressivo assottigliamento della tibiale anteriore che si occlude completamente al 1/3 inferiore di gamba  con flusso alla gamba garantito solo da microcircolo (B). Flusso al piede garantito da microcircolo dalla pedidia (C). Ricanalizzazione della tibiale anteriore (D),  e della pedidia (E).

Essenziale secondo noi è la presenza di almeno un’arteria pervia al piede. In letteratura vi è oggi una corrente di pensiero che enfatizza il rapporto tra sede dell’ulcera e il corrispondente terreno d’irrorazione: fondamentale quindi sarebbe la pervietà della tibiale  anteriore se è presente una lesione dell’avampiede, della tibiale posteriore se è presente una lesione del retropiede. In figura 68 uno scema dell’irrorazione delle varie parti del  piede

Figura 68 schema dell’irrorazione dell’ avampiede tramite la pedidia e del calcagno tramite collaterali della tibiale posteriore. La peronea è visibile dietro la tibiale anteriore nella parte destra della figura

 

Questa concezione della territorialità dell’irrorazione del piede nota come“angiosome” degli anglosassoni è stata definita inizialmente da GI Taylor come una unità anatomica di tessuto alimentata da una specifica arteria (201) (figura 69)

Figura 69 raffigurazione angiosomica del corpo (da referenza 201)

 

In questo lavoro sono state individuate ben 374 branche arteriose (“major perforators”) destinate all’irrorazione di un singolo territorio. La territorialità dell’irrorazione arteriosa è naturalmente oggetto d’interesse primario per chi deve eseguire trapianti vascolarizzati (202).

Questo cocetto ha preso rapidamente piede (è il caso di dirlo) anche nel campo della rivascolarizzazione e della cura del piede (203-206)

La vascolarizzazione territoriale del piede è stata ben illustrata in un recente lavoro di Clemens e Attinger che riporta dettagliatamente l’irrorazione del piede e le relative corrispondenze anatomiche (207) (figura 70)

Figura 70 schematizzazione della correlazione tra irrorazione e sede anatomica (da referenza 207)

 

 

In un lavoro altrettanto recente di Rogers e coll  è definito più immaginificamente come “toe and flow” (208).

Una dimostrazione della razionalità di questo modello è stata data da un lavoro di Neville e altri sul BPG dove nei pazienti con rivascolarizzazione diretta della zona ulcerata si aveva il 91% di guarigione verso il 62% e il salvataggio d’arto era del 91% verso il 72% (209). Analoghi risultati sono stati ottenuti da Lida e altri con la PTA (208). Indubbiamente sembra razionale  e anche scontato che  un approccio che tenga in considerazione il sito della lesione e l’arteria nutritiva di quel sito sia l’approccio corretto: la figura 71 mostra una specifica richiesta all’interventista di rivascolarizzare sia la pedidia che la plantare per i siti diversi di ulcerazione.

Figura 71 rivascolarizzazione di pedidia e plantare in paziente con lesioni dell’avampiede e del retropiede

 

 

Noi riteniamo che il problema sia più complesso e riguardi soprattutto la capacità da un lato dell’arteria ricanalizzata di rifornire abbondantemente il microcircolo.

La figura 72 mostra un quadro angiografico di rivascolarizzazione della  peroniera con ottimo flusso plantare ma con microcircolo dorsale deficitario.

Figura 72 quadro angiografico di rivascolarizzazione della  peroniera con ottimo flusso plantare ma con microcircolo dorsale deficitario

 

 

Questa concezione della territorialità dell’irrorazione del piede rispetto alla lesione è effettivamente essenziale per la guarigione di alcune ulcere soprattutto del tallone e necessita della rilevazione della ossimetria perilesionale piuttosto che sul dorso del piede (211,212).

La figura 73 A riporta il caso di lesioni dell’avampiede e del tallone con differente ossimetria e angiografia consona con l’ossimetria perilesionale calcaneare.

Figura 73 A vasta ulcerazione postchirurgica del margine laterale del 1° metatarso con esposizione della testa e linfangite satellite di tutta la gamba. Ossimetria al dorso del piede ampiamente soddisfacente nonostante l’edema.

Lesione del calcagno con sottostante osteomielite con ossimetria perilesionale indicativa di ischemia critica (figura 73 A)

Figura 73 A Lesione del calcagno con sottostante osteomielite con ossimetria perilesionale indicativa di ischemia critica.

.L’angiografia mostrava un quadro di normalità lungi tutto l’asse del’arto ma con una stenosi significativa della tibiale posteriore alla caviglia (figura 73 C)

Figura 73 C angiografia dell’arto inferiore con normalità delle 3 arterie di gamba e della pedidia ma stenosi emodinamicamente significativa della tibiale posteriore a livello della caviglia

 

Per ottenere la guarigione dell’avampiede non è stato necessaria alcuna  rivascolarizzazione (figura 73 D).

Figura 73 D amputazione transmetatarsale distale con innesto dermo-epidermico della zona mediale

Per ottenere la guarigione del calcagno è stato necessario rivascolarizzare  la tibiale posteriore fin oltre il calcagno (figura 73 E)

Figura 73 E rivascolarizzazione della tibiale posteriore a livello del calcagno .

 

Ottenendo la guarigione anche del calcagno dopo calcanectomia parziale per osteomielite (figura 73 F) e ottenendo alla fine la guarigione completa (figura 74)

Figura 73 F calcanectomia per osteomielite

 

Figura 73 G guarigione della lesione dell’avampiede e del calcagno

 

 

 

In caso sia possibile rivascolarizzare solo la peroniera, è indispensabile valutare la capacità di questa arteria di rivascolarizzare efficacemente tramite i rami perforanti la pedidia o la plantare o, naturalmente molto meglio, ambedue.

Al contrario la rivascolarizzazione della peroniera  senza rami perforanti è raramente in grado di permettere il salvataggio del piede. In figura 74 la ricanalizzazione del tronco tibio-peroniero e della peroniera senza rami perforanti. Questa peroniera ha consentito l’amputazione della gamba al terzo medio ma non il salvataggio del piede.

Figura 74 ricanalizzazione del tronco tibio-peroniero e della peroniera senza rami perforanti.

Comunque anche la rivascolarizzazione della sola peroniera è in grado di ottenere in molti casi il salvataggio d’arto e in assenza di alternative, è un’arteria da utilizzare (213).

Proprio per la presenza pressoché costante di ostruzioni molto distali è essenziale la capacità dell’operatore di effettuare una puntura anterograda che permette una spinta più efficace necessaria per raggiungere e trattare ostruzioni molto distali.

Quel che conta alla fine al di là di parole immaginifiche è la possibilità della rivascolarizzazione di “fare arcata”: la figura 75 e la figura 76 mostrano una ricanalizzazione non ottimale della pedidia in un caso e della tibiale posteriore nell’altro caso.

Figura 75 ricanalizzazione diretta della tibiale con scarsa capacità di rivascolarizzazione dell’arcata plantare

Figura 76 ricanalizzazione diretta della tibiale posteriore con scarsa capacità di rivascolarizzazione dell’arcata dorsale

Nel primo caso una lesione plantare avrebbe una scarsa probabilità di successo  e nel secondo caso analogamente una lesione dorsale.

La figura 77 mostra un caso di ostruzione totale  della superficiale con nessun flusso diretto popliteo e sottopopliteo. Flusso al piede affidato a una pedidia esile inefficace

Figura 77 ostruzione totale  della superficiale con nessun flusso diretto popliteo e sottopopliteo. Flusso al piede affidato a una pedidia esile

La figura 78 mostra la  ricanalizzazione della femorale superficiale, poplitea e tibiale anteriore. Nonostante la pedidia appaia troncata a livello del corpo dei metatarsi la rivascolarizzazione dell’arcata dorso-plantare appare decisamente eccellente.

Figura 78 Ricanalizzazione della tibiale anteriore con ottimo rifornimento del microcircolo

In questo caso una ricanalizzazione anche inconpleta della pedidia ha garantito una perfusione del microcircolo migliore di quanto ottenuto nella figura 77  con la ricanalizzazione diretta. Indubbiamente manca per la valutazione del microcircolo al piede una misurazione oggettiva: la valutazione angiografica risulta per forza di cose soggettiva. Probabilmente il mezzo più idoneo a valutare l’irrorazione delle varie parti del piede potrebbe essere l’ossimetria transcutanea in questa varie parti. Il problema è aperto

Come già detto nel nostro protocollo la PTA viene effettuata nello stesso tempo dell’angiografia. Si ribadisce come effettuare in un primo tempo una angiografia e in un tempo successivo una angioplastica comporta la necessità di una doppia puntura arteriosa e una doppia dose di mezzo di contrasto. Comporta ancora un allungamento del tempo necessario ad acquisire il beneficio della PTA e uno  stress doppio per il paziente. Questo vale anche per altre indagini invasive con mezzo di contrasto come la angio-TAC e angio-RM che anche se meno stressanti prolungano posticipano la rivascolarizzazione e aumentano considerevolmente i costi. Soprattutto non riusciamo a vedere il beneficio dell’aggiunta routinaria di tali metodiche.

Le complicazioni sono poco frequenti ma tuttavia esistono e devono essere tenute in conto e  spiegate al paziente. Le complicazioni più frequenti sono lo pseudo-aneurisma che se rifornito richiede un trattamento chirurgico, la trombosi distale trattabile spesso con fibrinolisi, o intercorrenti complicanze sistemiche soprattutto cardiache. Nella nostra casistica degli ultimi 10 anni l’uso di un protocollo di idratazione pre e post PTA ha portato a 1/1000 la necessità di dialisi per nefropatia da mezzo di contrasto. In tabella 11 le complicazioni occorse in un nostro lavoro su 993 pazienti sottoposti a PTA) (214)

Tabella 11 Complicazioni e loro trattamento in 993 pazienti trattati con PTA (da referenza 214)

complicazioni N trattamento
morte improvvisa dopo PTA 1
infarto miocardico 2 terapia intensiva
angina 2 trattamento medico
aritmia cardiaca 1 terapia intensiva
dolore toracico sine materia 1 accertamenti, nessuna terapia
scompenso cardiaco 1 medical treatment.
insufficienza renale acuta 1 trattamento medico senza dialisi
ematoma in sede di puntura 3            1 trasfusione                                   accertamenti, nessuna terapia
pseudoaneurisma 5            3 chirurgia                                chirurgia +  trasfusione
trombosi distale

 

7             3             1 trombolisi efficace                                  by-pass   graft                                        amputazione sopra la caviglia
embolismo colesterinico 1 terapia medica

 

Una affermazione ricorrente è che la PTA è una inutile cosmesi perché la restenosi è immediata e ineluttabile (215). Questa affermazione è sbagliata : se è vero che la restenosi è più frequente nei paziemnti trattati con PTA  rispetto ai trattati con BPG (216,217),  è altrettanto vero che una ulteriore PTA efficace è possibile in circa l’80% dei casi di restenosi (218).

Va comunque sottolineato che in termini di salvataggio d’arto non vi è differenza anche nel tempo tra PTA e BPG nonostante la maggior frequenza di restenosi nei diabetici trattati con PTA (figura 79)

Figura 79 pervietà primaria e secondaria e salvataggio d’arto in pazienti sottoposti a PTA o BPG (da referenze 216,217)

 

 

E’ ancora vero che la rivascolarizzazione nei diabetici è dettata principalmente dalla presenza di una ulcera: rivascolarizzazioni in pazienti con solo dolore a riposo sono molto rare (219).

L’efficacia della rivascolarizzazione è ancillare in questi casi al trattamento chirurgico o medico dell’ulcera: ottenuta la guarigione di questa, ristenosi possono essere presenti dal unto di vista morfologico ma non essere sintomatiche dal punto di vista clinico  non comportando dolore e ricomparsa di ulcera. Concordiamo comunque con molti lavori che sostengono che per ottenere il salvataggio d’arto nel tempo sono necessarie plurime ripetute PTA (220).

Al contrario in una nostra casistica con un follow-up medio di 6 anni la pervietà  dei BPG (incidence/year: 8.8%) è risultata minore rispetto alla PTA (incidence/year: 6.4%) (221).

Conseguentemente anche il tasso di amputazione maggiore è risultato diverso (figura 80)

Figura 80  tasso di amputazioni maggiori in una coorte di diabetici con CLI in un follow-up di 6 anni (da referenza 221)

 

Sottolineiamo ancora che quel che interessa il clinico non è tanto la pervietà primaria, e neanche quella assistita ma la conservazione dell’arto. Noi riteniamo che anche il salvataggio d’arto ottenuto con plurime rivascolarizzazioni sia un successo. Sottolineiamo che quel che ci interessa è la restenosi clinica, non quella morfologica. Una restenosi, così come un by-pass chiuso, non presuppongono ineluttabilmente la ricomparsa di dolore o lesione. Ci poniamo il problema di una restenosi se il paziente ripresenta dolore o se la lesione si blocca nel suo processo di guarigione.

Per PTA si intende una eliminazione effettuata all’interno dell’arteria delle ostruzioni intraarteriose che ostacolano il flusso ematico. Normalmente la disostruzione è fatta con palloncino che schiaccia la placca  ostruente lungo la parete arteriosa. Laddove una occlusione completa del vaso impedisca il passaggio della guida, l’angioplastica può essere effettuata per via subintimale: la guida per superare l’occlusione scolla l’intima e passa attraverso intima e media appiattendo la placca sempre mediante gonfiaggio di un palloncino. Il problema di questa tecnica è la possibilità di rientrare nel lume vero del vaso  cercando di atterrare con la guida al di là dell’occlusione (figura 81) (222).

Figura 81  angioplastica endoluminale (A) e angioplastica subintimale (B)

 

L’uso di stent è controverso: da alcuni molto utilizzati soprattutto nella femorale superficiale, l’utilità ne è stata dimostrata solo nella PTA delle arterie iliache (223).

Nella nostra pratica clinica lo stent è usato raramente nelle occlusioni lunghe della femorale superficiale quando considerata non soddisfacente la dilatazione con solo palloncino o quando praticata una rivascolarizzazione subintimale o in caso di dissezione o di fistola etc. L’uso nelle arterie sottopoplitee è assai controverso (224).

Nella nostra pratica clinica l’uso in questa arterie é ancora meno che sporadico. In una nostra casistica del 2009 su 308 pazienti sono stati messi  4 stent nel tronco tibio-peroniero, 3 stent nella tibiale anteriore. In due pazienti  sono stati messi stent sia in femorale superficiale che nel tronco tibio-peroniero

Nella tabella 12 l’uso di stent nella  nostra casistica della referenza 65.

Tabella 12  numero di stents usati in una casistica di 993 diabetici con CLI trattati con PTA (da referenza 65)

 

Nefroprotezione La nefropatia da mezzo di contrasto (CIN: contrast induced nephropathy) è considerata una complicazione frequente nei diabetici (225,226)

Da questo punto di vista si deve però considerare che gli attuali mezzi di contrasto, non ionici e con bassa osmolarità, hanno una molto minore tossicità rispetto ai mezzi di contrasto ionici usati in passato, e che la tecnica digitale attualmente usata richiede minor dosaggio e concentrazione del mezzo di contrasto (227-233)

Numerosi studi hanno valutato differenti protocolli e sostanze nella prevenzione della CIN (234-243). I diabetici insieme ai nefropatici cardiopatici e mielomatosi sono considerati soggetti ad alto rischio, soprattutto quando queste patologie coesistono (244,245)

I diabetici cin ulcera del piede e arteriopatia periferica hanno molto frequentemente sia insufficienza renale che cardiopatia: sono quindi ad altissimo rischio di CIN quando effettuano la PTA che assomma il mezzo di contrasto diagnostico (studio angiografico) col mezzo di contrasto terapeutico (PTA). Ancora quando presente un’ulcera infetta necessitano di terapia antibiotica anch’essa potenzialmente nefrotossica.

Fin dagli anni 90 abbiamo utilizzato nei nostri diabetici sottoposti a PTA una terapia di nefroprotezione basata sull’idratazione pre e post PTA utilizzando  successivamente negli anni dopamina, acetil cisteina e bicarbonato. Attualmente il nostro protocollo prevede di infondere il giorno prima, dell’esame e successivo 2000 cc di soluzione fisiologica addizionata di 40 ml di NA-bicarbonato. Nei pazienti con cardiopatia (frazione di eiezione < 40% o storia di scompenso) viene utilizzata furosemida EV all’inizio e alla fine dell’idratazione giornaliera. La funzionalità renale viene controllata prima e successivamente alla procedura (246-248). Con questo protocollo pazienti che hanno necessitato di dialisi temporanea dopo PTA sono stati 1/1000: in particolare  tutti i pazienti che hanno necessitato di questo trattamento erano pazienti particolari che hanno necessitato di trattamento urgente con protocollo di idratazione affrettato e incompleto o con quantità di mezzo di contrasto molto elevata per situazioni anatomiche particolari.

E’ in sperimentazione un protocollo che prevede la valutazione calibrata di infusione in relazione alla diuresi

 

Bypass La PTA è usualmente  nel nostro protocollo la prima scelta terapeutica quando guida e catetere scivolano con facilità nell’albero arterioso. Il BPG viene riservato a pazienti in cui la PTA non è stata possibile. Tuttavia in pazienti a basso rischio chirurgico con occlusioni lunghe femorali con arteria poplitea pervia giudicata buon vaso accettore o occlusione femoropoplitea con una arteria sottopoplitea giudicata buon vaso accettore proponiamo al paziente un bypass come prima scelta di rivascolarizzazione senza insistere con tentativi di rivascolarizzazione endoluminale (figura 82).

Figura 82  preparazione operatoria per bypass femoro-tibiale anteriore

In caso invece di pazienti ad alto rischio chirurgico insistiamo perchè una PTA venga tentata in ogni caso.

BPG in mani esperte possono essere fatti anche in condizioni estreme quando comunque l’alternativa è l’amputazione alla coscia. La figura 83 mostra un BPG  che ha utilizzato una poplitea sospesa come ponte per l’atterraggio sulla pedidia.

Figura 83  BPG femoro-popliteo e successivo popliteo-pedidio  in paziente con gangrena del piede  senza possibilità di PTA

 

Come si può ben vedere il risultato è ottimo (figura 84).

Figura 84 amputazione transmetatarsale dopo BPG

 

Il caso mostrato sopra apre ben la porta alla visione del filmato “bypass”

Quando si opta per un BPG bisogna anche metter in conto la possibilità di diastasi della ferite chirurgiche. La ferita più a rischio è quella del prelievo venoso  (figura 85)

Figura 85 diastasi in sede di prelievo di safena per BPG

 

Il bypass è, come detto,  una procedura di “chirurgia maggiore” e come tale deve prendere in considerazione il rischio chirurgico.

Anche se la necessità di provvedimenti coronarografici/interventistici pre-bypass periferico sono stati smentiti da recenti studi come il CARP, indubbiamente una attenta valutazione clinica del paziente da sottoporre a chirurgia vascolare è d’obbligo (249-251).

Nei pazienti coronaropatici stabili le recenti linee-guida raccomandano di inserire in terapia se non presente e non controindicato sia un beta-bloccante che una statina e un ace-inibitore oltre che al doveroso antiaggregante (252).

Sarà comunque indispensabile una valutazione dell’ECG a riposo stante la frequenza di ischemia silente non nota  nei diabetici e valutata se possibile anche la frazione di eiezione e l’integrità valvolare e lo status dei tronchi sovra aortici (253-257).

Anche nei diabetici è ampiamente documentata la superiorità della safena rispetto a materiali sintetici nella pervietà a distanza di un bypass periferico. In centri di chirurgia vascolare di riferimento per la rivascolarizzazione del paziente diabetico come quello di Bologna la ricerca di materiale venoso in tutti i segmenti del corpo consente di utilizzare molto spesso materiale venoso anche in assenza di safena. Tuttavia quando la PTA non è possibile e vene, nonostante una ricerca ad ampio spettro, non sono utilizzabili e l’alternativa è l’amputazione i nostri chirurghi vascolari utilizzano materiale sintetico anche per anastomosi sottopolitee (tabella 12).

Tabella 12  materiale utilizzabile in assenza di safena

Si avverte il paziente che procedure con questi materiali sono ad alto rischio di insuccesso e di necessità di amputazione successiva.

Diverso è invece l’opportunità di usare materiali sintetici per anastomosi soprapoplitee: in questo caso il rischio di chiusura è basso e noi stessi insistiamo con i chirurghi per risparmiare la safena per eventuali altre necessità anche coronariche.

Contrariamente alla PTA dove viene indicato prioritariamente il controllo clinico, il bypass necessita secondo le specifiche linee-guida (TASC,  ACC/AHA) di uno specifico protocollo temporizzato basato sull’esecuzione di ecocolorDoppler (258).

Indubbiamente il bypass femoro-popilteo sovragenicolare è una procedura che richiede un tempo limitato (circa 2 ore o poco più). Ben diverso è il problema  per i bypass distali già a cominciare dal femoro-popliteo sottogenicolare (figura 86).

Figura 86 anastomosi sopra o sotto il ginocchio

Vengono considerati bypass distali quelli che necessitano di una anastomosi con la poplitea sotto il ginocchio e a scendere. La tabella 13 elenca i vari tipi di bypass distali possibili

Tabella 13 tipologia dei bypass distali

 

 

La figura 87 mostra alcuni punti di repere per l’anastomisi distale

Figura 87 repere per anastomosi distale

Queste procedure sono molto più lunghe tanto più quanto la distalità aumenta. Richiedono strumentario microchirurgico anche qui tanto più aumenta la distalità (figura 88)

Figura 88 attrezzature per bypass distali

 

Tutti i bypass provocano ferite cutanee: i bypass distali provocano ferite più ampie: la figura 89 mostra le suture per un bypass femoro-peroniero

Figura 89 suture cutanee in bypass femoro-periniero

Queste ferite cutanee possono essere causa non solo di difficoltà di guarigione sia del sito di anastomosi che del sito di prelievo della safena ma anche di propagazione di infezione al piede. La figura 90 mostra il caso di un paziente sopposto a prelievo di safena che ha sviluppato una sindrome compartimentale trattata con fasciotomia (12-07) successivamente complicata da un ascesso distale che si è esteso al piede.

Figura 90 ascesso esteso al piede in sede di prelievo di safena in paziente con sindrome compartimentale trattata inizialmente con fasciotomia.

 

PTA e BPG: quale “first choice”?

 

In recenti congressi e convegni si è sviluppato un ampio dibattito su quale fosse la procedura di prima scelta per rivascolarizzare i pazienti diabetici con CLI. Questo dibattito è destinato a ripresentarsi in altri convegni e congressi perchè il problema è di impatto rilevante e le opinioni sono discordi. La letteratura è molto ricca di lavori che considerano  solo pazienti che hanno fatto solo la PTA o che hanno fatto solo il BPG: quelli che hanno preso in considerazione la PTA dicono meraviglie della PTA, quelli che hanno  preso in considerazione il BPG dicono meraviglie del BPG. L’unico studio randomizzato è stato il BASIL che però, come detto in precedenza, per motivi di oggettiva difficoltà nell’arruolamento di pazienti che dovevano essere passibili sia di BPG che di PTA ha scartato dallo studio numerosissimi pazienti, quasi quanto quelli arruolati. Noi consideriamo il BASIL uno studio che ha fondamentalmente dimostrato che non è possibile fare studi randomizzati (180)

La conclusione di questo studio è stata che l’efficacia delle due procedure sul salvataggio d’arto è sovrapponibile e che la differenza fondamentale è nel maggior costo del BPG. Questo dato è essenziale nel dibattito su quale sia la procedura di scelta perché annulla qualsiasi pretesa  di primogenitura sull’efficacia. Il problema della scelta si sposta quindi su altri parametri che sono le complicanze, la degenza, la pervietà a distanza, il costo.

Non si vuole entrare qui nel merito di questi fattori che sono anche fattori  spesso dipendenti da cause variabili: ad esempio sia per PTA che per BPG la professionalità dell’operatore è essenziale nel determinare le complicanze. Un fattore che ha molto impatto nel decidere per l’uno o per l’altro è la mortalità perioperatoria  da sempre descritta come maggiore nel BPG. Il recente studio riportato nella referenza 259 conferma una mortalità a 30 giorni più alta nei pazienti sottoposti a BPG. Nella nostra esperienza però una accurata valutazione e una corretto trattamento del paziente consente di avere una mortalità perioperatoria nei BPG bassissima, sovrapponibile a quella dei pazienti trattati con PTA.

Il problema secondo noi più importante è però la fattibilità dell’una o dell’altra procedura nei pazienti diabetici. La letteratura è estremamente povera di lavori  che hanno considerato popolazioni di pazienti non selezionati per l’una o l’altra procedura. In parole povere anche studi con risultati splendidi nel BPG come quelli della scuola di Boston non ci dicono quanti pazienti sono stati da loro rifiutati per il BPG o perchè non avevano una arteria target su cui atterrare o perchè avevano un eccessivo rischio chirurgico. Conseguentemente non ci dicono nemmeno quale è stato l’outcome di questi pazienti.

Il problema della fattibilità della rivascolarizzazione è un  pivot essenziale su cui decidere di quale procedura è prioritariamente necessario disporre. In un nostro recente lavoro abbiamo valutato proprio la fattibilità del BPG, tenendo conto che i chirurghi vascolari con cui collaboriamo sono esperti nel trattamento di pazienti diabetici con ischemia critica proprio per la collaborazione con la nostra Unità Operativa (179). Ebbene i nostri chirurghi vascolari in base al quadro angiografico  hanno considerato fattibile, e una certa quota di questa fattibilità era anche molto teorica, una rivascolarizzazione chirurgica nel 60% dei nostri pazienti. Questo dato non ci stupisce e non può stupire chiunque sia conoscitore delle caratteristiche dell’arteriopatia periferica nel diabetico che frequentemente offre quadri come quello mostrato nella figura 91 che non hanno alcuna arteria sottopoplitea  su cui un BPG possa atterrare.

Figura 91 quadro angiografico sottopopliteo di un paziente diabetico con CLI: nessuna arteria disponibile per anastomosi di un BPG

 

Di fatto sono stati rivascolarizzati con PTA l’85% dei pazienti e con BPG l’11%, restando non riva scolarizzati solo il 3.3%. Questo significa che la fattibilità della PTA è altissima e quella del BPG, pur inferiore, abbastanza alta. Ma significa soprattutto che è solo disponendo di ambedue queste tecniche che si rivascolarizza la stragrande maggioranza di diabetici con ischemia critica: e questo è il vero obiettivo.

Da questo punto di vista appare essenziale decidere sulla scelta migliore per il paziente insieme, in base alle rispettive competenze. La figura 92 mostra il momento decisionale sulla procedura da privilegiare con presente le figure professionali necessarie per una valutazione complessiva del paziente, angiografica e clinica.

Figura 92  momento decisionale comune del team di Multimedica sulla procedura da privilegiare in base alle caratteristiche angiografiche (chirurgo vascolare e cardiologo interventista) e cliniche (diabetologo)

 

Personalmente da sempre ho sostenuto che l’importante era rivascolarizzare efficacemente il piede: il mezzo per ottenere la rivascolarizzazione era di secondaria importanza. Ugualmente sostengo che quando facilmente possibile (leggi: la guida passa facilmente, il pallone dilata subito a bassa pressione) la PTA è senza dubbio la procedura di prima scelta. Nel caso in cui vi fosse una occlusione lunga calcifica della femorale superficiale soprattutto se coinvolgesse la femorale comune e soprattutto se coesistessero buone arterie aperte dove atterrare in grado di garantire flusso al piede con un bypass e il paziente fosse a basso rischio chirurgico il BPG può essere un intervento di prima scelta. Qualche altra considerazione potrebbe essere fatta: se il BPG è sovrapopliteo anche l’uso di materiale protesico artificiale potrebbe essere utilizzato senza problemi con potenziale utilizzo successivo della safena. La apposizione di stent soprattutto nella femorale comune dovrebbe essere evitata perché impedirebbe un successivo eventuale BPG. La tabella 14 riporta qual è oggi il nostro atteggiamento rispetto alle problematiche poste dall’anatomia dell’arteria da riva scolarizzare, ovviamente  quando si tratta di occlusioni. Vi è poi da applicare all’anatomia la clinica del paziente.

Tabella 14 criteri anatomici di trattamento delle occlusioni nell’arto inferiore con CLI

Perché quindi la PTA come prima scelta ? Perché la PTA non necessita di anestesia oltre quella topica in sede di introduttore, la degenza è breve, le complicazioni sono per lo più  modeste, non provoca ferite cutanee. Fondamentalmente essendo nella nostra pratica clinica contemporanea allo studio angiografico la rapidità della rivascolarizzazione con PTA è un vantaggio enorme nei pazienti con ulcera grave che necessitano di interventi chirurgici d’urgenza come l’ascesso o la gangrena umida. In questi pazienti  chiaramente la programmazione del BPG con le necessarie precauzioni  anestesiologiche che richiedono tempo rischia di posporre la rivascolarizzazione e di ritardare o anche compromettere la guarigione della ferita al piede. Nonostante tutto questo vi è una tendenza a ribadire da parte di alcune società scientifiche la superiorità del BPG rispetto alla PTA, da ultime le linee guide dei cardiologi americani (figura 93) che nell’edizione 2011 di aggiornamento dell’edizione del 2005 relegano alla PTA il ruolo di first choice se l’aspettativa di vita è inferiore a 2 anni o manca la safena (260).

Figura 93 aggiornamento 2011 delle indicazioni alla rivascolarizzazione  delle linee guida dei cardiologi americani (da referenza 260)

 

E’ indispensabile considerare che queste conclusioni sono dirette alla popolazione generale e questa non è sovrapponibile alla popolazione diabetica per caratteristiche anatomiche e cliniche. Resta quindi aperta la questione di quale prima scelta nei diabetici. Si deve considerere anche che questo tipo di conclusione è basata sui lavori di follow-up del BASIL (261-266). Ribadisco le mie critiche al BASIL e ribadisco che di quel 40% di diabetici inclusi nello studio non si è avuta notizie sugli outcomes: quanti sono stati amputati, quanti morti, in quanti hanno avuto restenosi della PTA o trombosi del BPG. E’ quindi corretto estendere ai diabetici queste conclusioni ?

Ritengo che per decidere come riva scolarizzare un diabetico con ischemia critica si debbano prendere in considerazione almeno 5 parametri:

  1. fattibilità
  2. efficacia
  3. sicurezza
  4. repetibilità
  5. costo

Ho già detto della fattibilità che a mio parere è la motivazione che de facto richiede  la PTA come prima scelta in un gran numero di pazienti. L’efficacia è assolutamente sovrapponibile. La sicurezza anche se definita in letteratura migliore per la PTA (259), in mani chirurgiche valide non differisce significativamente. La repetibilità è grandioso appannaggio della PTA. I costi sono a vantaggio della PTA in prima battuta,  ma il maggior numero di procedure necessarie per mantenere la pervietà dei vasi trattati potrebbe parificare i costi.

Ma al di là di questo: perché no  alla PTA come prima scelta ? Credo che per  rispondere a questa domanda ognuno di noi  dovrebbe chiedersi cosa sceglierebbe per suo padre.

 

Procedure ibride

La PTA può essere associata, nel medesimo tempo chirurgico o nell’immediato tempo successivo, a un by-pass prossimale. Tipicamente è possibile effettuare una PTA iliaca che permette poi un BPG ad esempio femoro-popliteo. Questo permette un accesso chirurgico più distale e anche un ponte più corto. Un by-pass “corto” invece che un by-pass “lungo”  ha un tempo chirurgico inferiore e ha migliori possibilità di pervietà nel tempo. E’ poi possibile effettuare un BPG prossimale, ad esempio femoropopliteo per scavalcare una occlusione femorale invalicabile alla guida e far affidamento su una successiva PTA tibiale per garantire run-off al BPG (figura 94) (267,268).

Figura 94  BPG femoro-popliteo con PTA intraoperatoria della tibiale anteriore

 

In questi casi è opportuno valutare la presenza di un imbocco di una tibiale prima di effettuare il BPG: confidare sulla possibilità di una PTA in assenza di qualsiasi tratto arterioso sottopopliteo pervio anche se non fino al piede potrebbe essere un azzardo. La PTA può essere utile anche  quando si effettuano BPG molto distali ma con scarso run-off al piede: la figura 95 mostra una PTA effettuata al termine di un BPG in tibiale posteriore al passaggio plantare che ha migliorato il run-off.

Figura 95 BPG femoro plantare con scarso runoff sulla plantare (A) PTA con guida inserita in plantare (B). PTA della plantare che mostra un netto miglioramento del run-off

Per ragguagli tecnici su BPG e procedure ibride si rimanda alla consultazione di due libri editi a cura della Chirurgia Vascolare di Bologna, particolarmente dedita ai problemi dell’arteriopatia nel diabete (269,270).

 

Efficacia della rivascolarizzaione parziale

Il salvataggio d’arto è garantito solo dalla rivascolarizzazione diretta del piede: la probabilità di conservare l’arto per ogni procedura che non ottiene questo risultato sarà modesta. Questo fatto è stato dimostrato valutando la pervietà delle arterie al piede e la percentuale di amputazione sopra la caviglia: i dati sono visibili nella tabella 15 (271).

Tabella 15 valutazione angiografica della pervietà delle arterie crurali al piede dopo PTA in pazienti con o senza amputazione sopra la caviglia (da referenza 271)

 

arterie crurali pervie pazienti guariti

(n = 398)

pazienti amputati

(n = 22)

p
3 67 0  

χ2 = 179.9

p < 0.001

2 143 0
1 179 7 (3.9%)
0 9 15 (62.5%)

 

 

La figura 96 mostra una rivascolarizzazione femoro-tibiale con PTA estesa a tutta la pedidia

Figura 96 rivascolarizzazione femoro-tibiale con PTA  estesa a tutta la pedidia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In alcuni casi è possibile rivascolarizzare le arterie sovrapoplitee ma non quelle sottopoplitee.  Questa rivascolarizzazione parziale può essere sufficiente, in presenza di un’ulcera superficiale non infetta,  a limitare il dolore quando presente e a garantire un margine di tempo libero da amputazione. Può permettere se non il salvataggio del piede  una amputazione di gamba invece che una amputazione di coscia, con un inestimabile vantaggio per la deambulazione con protesi.

 

Terapie adiuvanti alla  rivascolarizzazione

In circa il 5% dei pazienti non è possibile nè la rivascolarizzazione endoluminale nè quella chirurgica. In questi pazienti come unanimemente riportato dalla letteratura, il rischio di amputazione maggiore immediata è elevatissimo. Tuttavia nei pazienti in cui il dolore ischemico è sopito dalla neuropatia e in cui l’ulcera è superficiale e sterile non  vi è richiesta di una amputazione immediata: resta il rischio molto alto di peggioramento della lesione soprattutto per  sovra infezione intercorrente in un lasso di tempo non molto ampio. In questi pazienti  si pone il problema di quali interventi terapeutici si possano utilizzare per rendere questo lasso di tempo il più lungo possibile. In questi pazienti l’approccio più comune comprende farmaci vasodilatatori, ossigenoterapia iperbarica, stimolatori midollari.

Farmaci vasodilatatori I prostanoidi sono attualmente i farmaci più studiati nella CLI. I prostanoidi hanno dimostrato effetti positivi su molte delle alterazioni del microcircolo agendo positivamente sulla attivazione piastrinica (attivazione dell’adenilato-ciclasi ed aumentando AMP-c), sulla attivazione dei leucociti e sull’ endotelio danneggiato. I Prostanoidi determinano un aumento del flusso sanguigno grazie all’effetto vasodilatatore che si realizza direttamente sulla muscolatura vasale. Nell’ischemia critica è stata dimostrata una azione vasodilatatrice anche sul circolo collaterale Studi clinici e sperimentali hanno evidenziato un aumento della fibrinolisi attraverso la stimolazione dell’attivatore del plasminogeno (elevati livelli di plasmina e fibrinopeptide sono presenti durante il trattamento). Studi clinici di controllo (PGE-1 vs placebo) hanno dimostrato che la somministrazione endovenosa mono o bi-giornaliera per 4 – 8 settimane aumenta l’intervallo di libertà dal dolore e la distanza massima di percorrenza (tabella  16) (272,273)

Tabella  16 trials che hanno comparato l’infusione di prostanoidi rispetto a placebo in pazienti con stadio III e IV di Fontaine (da referenza 272 e 273)

Nel 2010 è stata pubblicata una Cochrane sui prostanoisi con evidenza di efficacia sul dolore come noto ma anche una apertura al rispsrmio di amputazione (274)

Purtroppo sono frequenti numerosi effetti collaterali quali cefalea, disturbi gastroenterici, crisi ipotensive

I farmaci vasodilatatori non possono incrementare il flusso a valle di una occlusione arteriosa. Un meccanismo di autoregolazione nel letto vasale muscolare produce vasodilatazione in risposta all’ischemia ma comportano un incremento di flusso nei tessuti non ischemici con possibilità di “furto”

La TASC (raccomandazione 85) dà indicazione all’uso di prostanoidi nei pazienti con un arto vitale in cui le procedure di rivascolarizzazione sono impossibili, in presenza di poche possibilità di successo o in casi di precedenti insuccessi, ed in particolar modo quando l’alternativa è l’amputazione. Questa indicazione pur suffragata da indubbie evidenze scientifiche, appare eccessivamente restrittiva.

Lo studio ICAI, in cui i diabetici rappresentavano il 39% della popolazione arruolata, ha dimostrato un discreto vantaggio per i pazienti con CLI nel breve periodo. Il beneficio tuttavia veniva perduto a 6 mesi (275)

Se è vero che l’uso di prostanoidi in assenza di rivascolarizzazione non consente il salvataggio d’arto in pazienti con CLI,  può comunque alleviare il dolore e procrastinare l’amputazione soprattutto se la lesione è superficiale e non necessita di intervento chirurgico (276).

Potrebbe essere un ottimo ausilio adiuvante nei soggetti con rivascolarizzazione sia con BPG che con PTA solo prossimale o parziale del piede. Mancano evidenze che confermino questo presupposto fisiologico ma sia il presupposto sia la nostra epserienza anche se parziale sono confirmatori dell’efficacia di questo ausilio (277-279).

Ossigenoterapia iperbarica L’ossigeno terapia iperbarica ha mostrato un ottimo effetto adiuvante in tempi in cui la rivascolarizzazione diretta  aveva una limitata fattibilità (280). Nella figura 97 è visibile una camera iperbarica

Figura 97 camera iperbarica

Oggi, tempo in cui la rivascolarizzazione endoluminale o chirurgica garantisce un flusso arterioso diretto al piede in piùm del 95% dei pazienti con ischemia critica, l’uso di questa terapia ha visto restringersi notevolmente il campo d’applicazione.

Abbiamo più volte visto pazienti con prescrizione  assolutamente incongrua di questa terapia. L’ossigeno terapia iperbarica potrebbe attualmente essere usata come adiuvante nelle rivascolarizzazioni parziali (rivascolarizzazione non diretta al piede) o parzialmente efficaci (rivascolarizzazione con incremento ossimetrico modesto) oltre che ovviamente nei pazienti non rivascolarizzati.

Il costo e l’organizzazione della terapia sono onerosi soprattutto per quanto riguarda lo spostamento del paziente dal luogo della cura del piede al luogo di struttura iperbarica.. Attualmente questa terapia viene utilizzata con appropriatezza  ai pazienti con gangrena gassosa o fascite necrotizzante come adiuvante alla terapia chirurgica e antibiotica (281-284).

Una risposta a questi quesiti è attesa dall’esito dello studio indicato alla referenza 285

Stimolazione epidurale  Lo stimolatore epidurale, meno utile nei diabetici molto spesso affetti da neuropatia autonomica che di per sé provoca lisi simpatica, può avere una qualche efficacia sull’entità del dolore ma  la percentuale di amputazione maggiore  nei pazienti trattati con stimolatore è molto alta anche nel breve periodo (286). Maggiori informazioni su queste terapie possono essere trovate nella referenza 287 (figura 98).

Figura 98 stimolatore epidurale: apparecchio stimolatore (a), computer di programmazione (b), elettrodo stimolatore (c)  (da referenza 287)

 

 

Accanto a queste terapie per cui esiste una consolidata anche se non univoca letteratura, esistono segnalazioni sporadiche di altre tecnologioe appicabili alla cura dell’arteriopatia periferica (288-291).

La mia esperienza si limita all’applicazione di una stimolazione elettrica a pazienti con dolore ischemico per impossibilità o fallimento parziale della rivascolarizzazione diretta dell’arto (figura 99).

Figura 99 applicazione di elletrostimolazione a paziente con bypass fallito

 

 

Terapia antitrombotica nei pazienti diabetici rivascolarizzati

Fiumi di lavori sono disponibili nella valutazione della terapia antitrombotica dopo rivascoraizzazione coronarica (292).

Non altrettanta abbondanza si ha nella valutazione della terapia antitrombotica dopo rivascoraizzazione periferica, nel cui utilizzo si mutua spesso dall’esperienza coronarica (293). Vi è da aggiungere che molti lavori hanno valutato in pazienti sottoposti a rivascolarizzazione periferica l’efficacia della prevenzione antitrombotica secondaria su outcomes come  IMA, ictus, morte cardiovascolare piuttosto che per recidiva di ischemia periferica (294-298).

Il primo assunto comunque è che nella prevenzione secondaria non vi sono i dubbi di efficacia attuali presenti per la prevenzione primaria (299-303). La figura 100 mostra il primo flacone di aspirina prodotta in germania.

Figura 100  primo flacone di aspirina prodotto in Germania

Un recentissimo studio ha confermato tutti i dubbi dell’utilità di prescrivere questo farmaco in prevenzione primaria (304).

Tuttavia è ormai pratica comune, suffragata anche dai risultati di vari studi,  come al solito di derivazione cardiologica, utilizzare una doppia terapia antiaggregante (305-307).

Nella nostra pratica clinica abbiamo da sempre utilizzato la ticlopidina in associazione con aspirina anche perché il clopidrogrel fino a pochi mesi fa il suo uso era non mutuabile in pazienti con angioplastica periferica nemmeno con piano terapeutico e il costo non era da poco. Le evidenze di superiorità non erano poi così definitive (308). Tuttavia le già citate linee guida 2011 dei cardiologi americani (252) recitano: “the combination of aspirin and clopidogrel may be considered  to reduce the risk of cardiovascular events in patients with symptomatic atherosclerotic lower extremity PAD, including those with intermittent claudication or critical limb ischemia, prior lower extremity revascularization (endovascular or surgical), or prior amputation for lower extremity ischemia and who are not at increased risk of bleeding and who are at high perceived cardiovascular risk). (Level of Evidence: B).

Va sottolineato che per il clopidogrel vi è un rischio trmbotico alto per i bassi utilizzatori, per individuare i quali è necessario  determinare il profilo genetico dell’enzima epatico CYP2C19, test ormai disponibile nella pratica clinica (309-312).

Va ancora detto che perlomeno per quanto riguarda l’infarto la sua  discontinuazione è a rischio di retrombosi (313,314)

L’interazione tra  inibitori di pompa protonica e clopidrogel è nota ma va comunque rammentata (315,316).

Attualmente sono in fase di valutazione molti farmaci di nuova generazione (309), anche se il gold standard prevede ancora l’utilizzo combinato di aspirina e clopidrogrel. Il prasugrel, il ticagrelor e il cangrelor sembrano presentare vantaggi rispetto al clopidrogrel per superiore farmacocinetica o diverso meccanismo di inibizione piastrinica (317-319).

Il ticagrelor è stato recentissimamente autorizzato in associazione con aspirina nel pazienti cardiopatici: per l’arteriopatia periferica ci sarà da spettare, quanto non si sa (320).

Nuovi farmaci sono attualmente in studio (321,322).

In campo cardiologico si parla anche di tripla antiaggregazione. Non ci risultano applicazioni in campo periferico (323). Anche le dosi ottimali sono molto discusse sia per l’aspirina che per il clopidrogrel (323-326).

Per il clopidrogrel è ormai assodato che l’efficacia e la dose sono dipendenti anche da varianti genetiche (327-332).

Se per il clopidrogrel è in discussione la dose in relazione a diversi fenotipo, per l’aspirina è in discussione la modalità di somministrazione mono o bi giornaliera (333-336).

Per quanto riguarda il BPG vi sono attualmente diverse opinioni sul miglior trattamento, se con antiaggreganti o anticoagulanti (337-339).

Una revisione Cochrane del 2011 circa l’uso di antitrombotici per prevenire le trombosi dei by-pass infrainguinali conclude che i pazienti sottoposti a by-pass infrainguinale in vena hanno un beneficio più grande se trattati con antagonisti della vit. K rispetto a quelli trattati con inibitori dell’aggregazione piastrinica mentre quelli sottoposti a by-pass in sintetico hanno un beneficio quando trattati con aspirina (340). Le opinioni sono però discordi e alcuni studi propenderebbero per anticoagulazione nei BPG in sintetico, altri anche per i BPG in vena molto lunghi distali (341).

Vi sono molte aspettative per nuovi anticcoagulanti soprattutto per quanto riguarda la sicurezza antiemorragica  (342-344)

E’ prevedibile che nella prossima decade si avrà un completo rimodellamento della terapia antitrombotica sia per quanto riguarda l’antiaggregazione che l’anticoagulazione.

 

ABBIAMO RIVASCOLARIZZATO: ABBIAMO FINITO ?

La rivascolarizzazione è una indispensabile per arrivare alla guarigione di un’ulcera. E’ sufficiente ? Per evitare l’amputazione maggiore, in un piede ischemico una eccellente rivascolarizzazione è indispensabile ma non è  sufficiente. Dopo la rivascolarizzazione

una adeguata cura dell’ulcera è indispensabile. Può essere sufficiente quando la lesione è superficiale e non infetta: in questi casi che possiamo classificare di grado C1 della Texas o di grado 1 di  Wagner è possibile che la guarigione una volta ripristinato un valido flusso arterioso avvenga spontaneamente. Si fa notare comunque come nella Texas la percentuale di amputazione nel grado C1 sia del 20%, anche se questo dato ci meraviglia un pò in quanto percentuale abbastanza alta in pazienti con ulcera teoricamente guaribile senza grosse difficoltà. La situazione comunque cambia cospicuamente quando l’ulcera arriva è profonda e soprattutto quando l’ulcera è settica (345). La figura 101 riporta la percentuale di amputazioni in pazienti con infezione senza ischemia e con infezione e ischemia: appare evidente che la presenza di infezione in pazienti ischemici rappresenta un elevatissimo rischio di amputazione

Figura 101  percentuale di amputazioni in pazienti con sepsi senza ischemia e pazienti con sepsi e ischemia (da referenza 345)

 

E’ necessario che accanto alla rivascolarizzazione vi sia la cura dell’ulcera senza la quale anche una eccellente rivascolarizzazione è destinata a fallire nel salvataggio d’arto.  Le figure 102 seguenti mostrano il caso di una paziente in cui il trattamento con rivascolarizzazione è stato strettamente correlato col trattamento della lesione.

Figura 102 A  Paziente con ascesso del mesopiede e  fascite estesa oltre la caviglia. L’incisione con bisturi della lesione del mesopiede ha evidenziato una raccolta purulenta profonda nel mesopiede

 

 

Figura 102 B intervento chirurgico urgente con amputazione alla Chopart per la bonifica dell’ascesso e debridement dei tessuti soprafasiali fin oltre la caviglia.

 

Figura 102 C rivascolarizzazione il giorno successivo all’intervento chirurgico con PTA con ricanalizzazione della tibiale posteriore occlusa e della tibiale anteriore stenotica

 

Figura 102 D  letto dell’ulcera a distanza di cinque giorni dalla rivascolarizzazione

 

Figura 102 E  guarigione con trapianto dermo-epidermico

 

 

Figura 102 F  ripristino della deambulazione con scarpe di prevenzione secondaria. Il viso del paziente non è stato oscurato per espressa richiesta del paziente.

 

 

Comorbidità nei diabetici con CLI

Se nei pazienti con CLI l’obiettivo più specifico è eliminare il dolore ischemico e prevenire l’amputazione maggiore, l’obiettivo più ambizioso è quello di ridurre la mortalità.  La presenza di CLI non è solo la presenza di una grave malattia delle arterie periferiche: è anche la presenza di una malattia ateroslerotica  generalizzata (346,347). La TASC riporta che  il 40-60% ha una malattia coronarica o cerebrale. Il 21% ha un infarto o un  ictus entro un anno dalla diagnosi (348,349)

Il rischio di coesistenza di una malattia dei vasi coronarici  o cerebrali è molto elevato:

nella nostre casistiche più della metà dei pazienti che ricoveriamo per CLI hanno una cardiopatia anamnestica nota e circa il 18% una anamnesi di ictus. La mortalità di questi pazienti è molto elevata e varia in relazione alla gravità della PAD (350) (figura 103)

Figura 103 mortalità in relazione alla gravità della PAD (da referenza 350)

 

 

Nella mia esperienza entro 5 anni il 50% dei pazienti ricoverati per CLI  è deceduto (221) (figura 104).

Figura 104 mortalità in una coorte di diabetici ricoverati per CLI ( da referenza 221)

 

Le cause di morte vedono al primo posto la cardiopatia. La tabella 17 riporta le cause di morte nella  coorte di diabetici ricoverati per CLI della descritta nella referenza 221

Tabella 17 cause di morte di diabetici ricoverati per CLI ( da referenza 221)

 

In questa tabella la mortalità cardiaca (definita come infarto, morte improvvisa o insufficienza ventricolare irreversibile) insiema alla mortalità cerebrale hanno provocato qualsi l’80% delle morti. Altre cause sono state estremamente variabili tranne che la morte per neoplasia: questo dato è antesignano di osservazioni molto recenti di un aumento della incidenza di neoplasie, soprattutto entriche, nella popolazione diabetica (351,352), anche se le cause di morte prematura nei diabetici trovano varie patologie (353).

Tuttavia sembra doveroso segnalare anche l’aumentata aspettativa di vita di questa popolazione che sipresenta con la CLI con una età media > 70 anni, possibile causa permissiva per lo sviluppo di neoplasie.

La figura 105 mostra la libertà da amputazione maggiore e morte..

Figura 105 libertà da eventi (amputazione e morte) in una coorte di diabetici ricoverati per CLI ( da referenza 221)

 

 

Da questi dati emerge chiaramente che i pazienti che non siamo riusciti a rivascolarizzare non solo hanno avuta una significativa maggior frequenza di amputazione, ma anche una maggior mortalità a conferma dalla maggior gravità della malattia aterosclerotica di questi soggetti. Se questi dati devono far considerare un paziente con CLI un paziente con aterosclerosi generalizzata con prognosi per la sopravvivenza molto severa,  le indicazioni sul “che fare” in questi pazienti sono molto confuse. Innazitutto sono molto pochi i lavori che parlano di CLI (354). In generale parlano di PAD e comumque anche in diabetici con PAD la prognosi è peggiore rispetto alla popolazione generale (355-358)

L’associazione di PAD e CAD è stata oggetto di alcuni studi che hanno verificato come l’associazione tra queste due patologie fosse molto forte (359,360).

In uno studio di Hertzer anche se non più modernissimo circa il 90% dei pazienti con PAD avevano una coronaropatia dimostrabile angiograficamente di vario grado (361). La TASC riporta che Il 60-80% dei pazienti con PAD ha una CAD significativa in almeno 1 vaso coronarico

La tabella 18 riporta i dati di prevalenza di malattia coronarica determinata angiograficamente in pazienti con PAD (362).

Tabella 18 prevalenza di malattia coronarica determinata angiograficamente in pazienti con PAD (da referenza 362).

Vari studi, anche se non tutti hanno evidenziato una prevaleza molto elevata di cardiopatia silente non nota nei diabetici (363-367). Ischemia non nota sarebbe ancor più ferquente nei diabetici con arteriopatia (368-372) anche se l’argomento è controverso (373).

In base a questi studi la presenza di PAD è considerata dalle linee-guida cardiologiche americane il fattore di rischio indipendente più profetico per coronaropatia, e un motivo sufficiente per sottoporre a screening cardiologico i diabetici candidati a chirurgia periferica (252).

Queste linee-guida sono oggi sottoposte a molte critiche come già detto (249,250)

Le linee-guida ADA del dicembre 2003 non danno alcuna indicazione di comportamento al di là di una generica affermazione che “the presence of PAD is a marker of excess cardiovascular risk” (12).

Noi riteniamo che questa mancanza di precise indicazioni sia una carenza. In una nostra recente popolazione consecutiva di 564 diabetici ricoverati per PAD e seguiti mediamente per 4 anni, vi è stata una significativa decrescente mortalità cardiaca nei pazienti con CAD nota ripetto a pazienti senza CAD (374) (figura 106).

Figura 106 mortalità in diabetici con CLI con e senza storia di cardiopatia ischemica (da referenza  374)

Vi è stata anche una decrescente mortalità nei pazienti con CAD nei pazienti senza rivascolarizzazione miocardica anamnestica, nei pazienti con rivascolarizzazione miocardica anamnestica, nei pazienti con rivascolarizzazione miocardica effettuata a seguito del ricovero per PAD ( figura 106).

Figura 106 mortalità in diabetici con CLI senza rivascolarizzazione miocardica, con rivascolarizzazione miocardica anamnestica, con rivascolarizzazione miocardica effettuata durante o susseguente  il ricovero per CLI (da referenza  374).

La mortalità cardiaca in questi ultimi è stata addirittura inferiore a quella dei pazienti che all’atto del ricovero erano apparentemente esenti da cardiopatia. Questo mi ha portato a cercare una stretta colaborazione con i cardiologi, collaborazione non sempre data come stretta. Indubbiamente utilizzare il ricovero per rivascolarizzazione periferica per una messa a punto della terapia per la cardiopatia ischemica (beta-bloccante, statina, ace-inibitore, antiaggregante)  e per una messa a punto della gravità di questa può essere più che utile per questi pazienti. Il filmato “prima visita paziente ischemico” mostra  il primo approccio a un paziente diabetico con ulcera del piede.  In questo caso il paziente aveva una arteriopatia periferica e l’esigenza di un controllo cardiologico era pressante e indispensabile, ma qualunque diabetico con ulcera del piede merita analogo approccio. La fatidica frase che si trova alla fine di quasi tutti i lavori scientifici  “servono ulteriori studi” che detesto e che mi ripromettevo di non nominare mai, putroppo per la valutazione dell’impatto della CAD nota e per la presenza di una CAD non nota nei diabetici con CLI mi sembra assolutamente appropriata e sono costretto ad usarla.

 

CONCLUSIONI

 

L’importante quando ci si trova di fronte a una ulcera del piede è non sottovalutare la presenza di arteriopatia. Il rischio è di continuare a medicare o, ancor peggio, eseguire interventi chirurgici che  in presenza di una arteriopatia periferica non diagnosticata e non rivascolarizzata, producono ulteriori interventi fino ad arrivare alla necessità di amputazioni della gamba.

Se non ci si dimenticherà che sopra un piede ischemico vi è un diabetico con macroangiopatia polidistrettuale, evidente o silente, avremo curato un paziente e non solo un organo (figura 107)

Figura 107

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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